Il salotto animato di Michel Blazy al MAN di Nuoro

Michel Blazy, Living Room

MAN, Museo d’Arte Provincia di Nuoro

26 febbraio – 10 aprile 2016

Italo Calvino, nel parlare delle Metamorfosi di Ovidio, cita una “legge di massima economia interna”, l’economia propria alle metamorfosi, che vuole che le nuove forme recuperino quanto più possibile i materiali delle vecchie, secondo un principio “di unità e parentela di tutto ciò che esiste al mondo, cose ed esseri viventi”. In altre parole: nei capelli scomposti di Dafne, nelle linee flessuose della suo corpo in fuga, è già presente in potenza l’albero di cui prenderà le fattezze, l’elasticità e la malleabilità di quel legno, la folta, sempreverde chioma del lauro.

Nel visitare il salotto vivente di Michel Blazy, allestito dal 26 febbraio al MAN (Museo d’Arte Provincia di Nuoro), il pensiero vola facilmente alla sintesi a cui ogni processo metamorfico appare tendere: “Living Room” è, in inglese, il soggiorno: la stanza più abitata, più “vissuta” della casa, dove si accolgono gli ospiti, dove si chiacchiera, dove ci si mette comodi per leggere il giornale o gustarsi un libro (oppure, più verosimilmente, dove oggi, seduti in poltrona con notebook o tablet sulle ginocchia, ci si perde tra i mille stimoli offerti dal web).

Il gioco di parole è palese: il salotto, non più spazio da vivere, diviene spazio vivente, dove gli oggetti un tempo appartenuti all’uomo germinano, vengono sopraffatti dalla natura e dai processi di crescita e decomposizione che finiscono per sfumarne i contorni (soprattutto se si tratta dei contorni nitidi, geometrici e levigati degli oggetti tecnologici, così lontani da quell’insieme di variabili dettate dal lavorio del Caso che determinano lo sviluppo degli organismi viventi e delle quali essi portano le tracce nel loro stesso “prender forma”). La parola “living” (“abitativo”, “destinato a essere abitato” ma anche “vivente”, da “live” = vivere) viene qui considerata in virtù della propria polisemia e, nel suo essere accostata al termine “room” (stanza), svela un ossimoro: se quella vita sotterranea che anima la materia organica, il silenzioso e imperturbabile succedersi dei cicli vitali di microrganismi, muschi, muffe e piante prende il sopravvento, gli oggetti, tragicamente privati dell’uso e dell’estetica con cui e per cui erano stati originariamente pensati, sfuggiranno, tanto dal punto di vista ontologico quanto da quello fisico, al regno dell’umano, confinati in un’alterità che è punto di non ritorno. La stanza “da vivere, da abitare”, nel suo farsi spazio animato e palcoscenico del mutevole, smette di essere confortevole habitat per l’uomo e i suoi riti quotidiani.

Le opere esposte nella sala al piano terra del museo sono solo sei ma ognuna ha una sua ragion d’essere e insieme rappresentano vari momenti della riflessione e della ricerca dell’artista. Valorizzate da un allestimento minimale, dialogano fra loro di modo che, come suggerito dal titolo della mostra, tutta la stanza divenga un’unica installazione.
Che venga visitata a distanza di un giorno, di un mese, di un minuto, ciò che si parerà davanti agli occhi dello spettatore non sarà mai la stessa esposizione. Blazy decostruisce il concetto stesso di opera d’arte come qualcosa d’immortale, che sopravvive all’autore, manufatto destinato a permanere nel tempo, sostituendola con l’effimero, col molteplice, col brulicare del cambiamento. Nel fotografarla non restituiremo l’immagine dell’opera ma di un momento del suo costante mutare. Essa è infatti connessa alla dimensione temporale e l’unico concetto d’immortalità che viene contemplato è quello derivante dalle continue trasformazioni a cui tutto ciò che vive e che entra in contatto col vivente è soggetto. Il quid risiede proprio nell’evoluzione delle forme, dei colori, nell’esperienza sinestetica dello spettatore di fronte alla metamorfosi in atto.

I materiali utilizzati sono gli oggetti della quotidianità – vecchi dispositivi tecnologici, abiti, scarpe da ginnastica – che divengono palcoscenico sul quale, grazie a un’adeguata illuminazione e poca acqua, si susseguono centinaia di micro-eventi a cui macroscopicamente corrispondono la crescita di un arbusto, un’erbaccia germogliata da un seme capitato lì per caso, il volo di un insetto, il deterioramento dell’oggetto che funge – letteralmente – da supporto e che cambia in virtù di quegli accadimenti.
Un processo riproducibile che ha come conseguenza un risultato unico, irriproducibile: in “Pull Over Time”, la prima opera che capita sotto gli occhi del visitatore, in un grande acquario vediamo degli abiti – alcuni maglioni e dei pantaloni – ordinatamente impilati, come se fossero in attesa di qualcuno che li indossasse. La loro ordinata disposizione ha un impatto molto forte sull’osservatore: se fossero alla rinfusa, come degli oggetti gettati via, la vegetazione che li ricopre, le erbacce che crescono su lana e cotone, non susciterebbero il medesimo stupore, quella malinconica consapevolezza dell’impermanenza delle nostre esistenze e delle cose che quotidianamente ne hanno fatto parte. Oltre ai vestiti, sono presenti anche scarpe da ginnastica e alcuni dispositivi tecnologici: sono macchine fotografiche quelle da cui spuntano fuori dei germogli; radici e foglie si fanno spazio fra i pulsanti di una compatta, scapocchiando alla ricerca di luce. Il mezzo che per definizione serve a conservare per sempre uguale a se stesso ciò che cattura in un’istantanea, diviene complice di questo teatro della mortalità e del mutamento.

La natura non può essere educata: all’interno della stessa stanza il vaso di una grande, verdissima pianta, si è rovesciato; essa continua a crescere, rendendo armoniosa la propria instabilità, per innalzare le proprie fronde sino al punto ove possano più godere della luce.

Quella che parrebbe (e in parte è) una rappresentazione distopica, decadente, dove gli oggetti del vivere quotidiano, nel perdere per sempre la propria funzione, smettono di appartenere alla sfera umana per divenire qualcosa d’altro può contenere, a ben guardare, un messaggio costruttivo, una riflessione a cui forse varrebbe la pena di dedicare qualche istante.

Equilibrio (fisico, mentale, materiale, delle proporzioni, della forma) è una parola che per noi ha indubbiamente una valenza positiva, rappresenta un obiettivo a cui tendere, un valore: chi di noi non vorrebbe essere una persona “equilibrata”, chi non auspica il raggiungimento di un equilibrio tra la propria sfera emotiva e quella razionale? Quante volte abbiamo sentito parlare di “perfetto equilibrio naturale”? Nel parlare così, quella che noi applichiamo è una sovrastruttura umana, una categoria in cui forziamo l’esistente. Dal punto di vista chimico-fisico, un perfetto equilibrio della materia significa morte. Di più, significa non-esistenza.

Nel mettere in scena i processi decompositivi, nel costruire sculture usando materiali organici e alimentari che possono essere corrotti e che le condizioni atmosferiche, le variazioni dell’ambiente, tendono a mutare, Blazy ci parla della vita segreta della materia, di quelle trasformazioni silenziose che non dovrebbero costruire un tabù in quanto istantaneamente associate all’idea di morte come distruzione, fine dell’esistenza. La morte non è che il passaggio da una condizione instabile a un’altra, una transizione a cui prende parte quel proliferare della vita che ci circonda, quel primordiale afflato vitale che non ha che fare con l’esistenza e coi suoi confini temporali, ma che prescinde dall’individuo, la Zoé degli antichi.

Si diceva in apertura dell’economia di forme, di materiali che anima ogni metamorfosi, un’economia a cui Ovidio riuscì a dare impareggiabile forma letteraria: qui, in virtù di quanto detto, un simile paragone potrebbe destare sorpresa. Vegetazione e tecnologia, materiali di uso comune con una propria determinata funzione e sostanze organiche corruttibili e suscettibili delle interferenze esterne appaiono come gli ingredienti di un accostamento paradossale, elementi giustapposti proprio in virtù dell’effetto straniante che ne deriva. Reazione in parte comprensibile in qualità del fatto che l’uomo tende a identificare una cosa sostituendo all’esperienza della stessa, alla sua immagine, la sua funzione.

Gli esiti di ciò che vediamo nella Living Room di Blazy non sono del tutto prevedibili ma vi si rintraccia comunque una proposta, il delinearsi di un progetto estetico e il raggiungimento di un risultato che lo soddisfi. Non c’è ragione per cui una scarpa da ginnastica non sia un adeguato riparo per le radici della piante che vi crescono dentro (sempre in “Pull Over Time”: essa finisce per ricordare la colorata conchiglia di un crostaceo, riconsegnando l’ibrido tra oggetto-prodotto di una cultura e forma vegetale al contesto naturale); la scultura “Pietre qui Séche” appare come un curioso minerale il cui interno brilla di verdi iridescenti, ricorda le concrezioni calcaree formatesi nel corso di tempi lunghissimi nelle grotte, e invece è costituita da carta, colorante alimentare, colla da parati e acqua (sfido chiunque a non desiderare di toccarla per saggiarne la consistenza).

E non c’è ragione per cui la superficie piana, perfettamente orizzontale, della tastiera di un notebook non possa divenire, con poco terriccio e qualche goccia d’acqua negli interstizi fra i tasti, terreno fertile per la vegetazione rizomatica. Con la stessa tenacia essa riesce a farsi strada, a lottare per la vita, senza quasi terra, lungo i sentieri rocciosi nei dintorni di Nuoro: i materiali plastici usati in ambito tecnologico sono altrettanto impervi ma in qualche caso hanno la virtù di favorire la nascita di una metafora, soprattutto se l’alfabeto, fecondo humus da cui si sviluppano infinite potenzialità culturali, diviene nutrimento per organismi naturali.

Una delle pareti del salotto di Blazy (“Mure qui pèle blue”), trattata con acqua, agar-agar e colorante alimentare blu, ricorda un animale che cambia pelle, mentre quello che inizialmente appare come un quadro astratto incorniciato e appeso su di un’altra parete, scopriamo essere niente meno che legno rosicchiato dai topi, coperto di crema al cioccolato, uova, farina di cocco, latte in polvere (“Barbacaen”).

Una parte della ricerca di Michel Blazy è volta a ricostruire e imitare le forme naturali attraverso materiali spesso alimentari, che si prestano particolarmente bene a tale scopo (ad esempio le strutture scheletriche costruite usando biscotti per cani).

Il valore di questa piccola esposizione risiede nella molteplicità delle riflessioni che suscita: non a caso è stata inserita all’interno di un programma annuale dedicato alle trasformazione del pensiero ecologico e alla varietà di artisti che hanno basato la propria attività su questo filone o che l’hanno incrociato nel corso del proprio percorso creativo. Nella Living Room di Blazy si “mettono in scena” attraverso poche opere-chiave, vari aspetti della ricerca che hanno animato l’attività dell’artista francese. Un invito ad approfondirne la conoscenza e a interrogarsi tanto sui temi dello status dell’opera d’arte, sul suo essere determinata dalla dimensione temporale, quanto sulla questione più generale del rapporto tra natura e cultura, dell’inesorabile mutamento a cui il mondo che conosciamo è soggetto, del Caso come instancabile motore che imprime il suo indelebile marchio sul Bìos di ogni essere vivente.

Acquisisce una dimensione simbolica – probabilmente inconsapevole – anche il fatto che questa particolare mostra – visitabile sino al 10 aprile – sia approdata in terra sarda: un luogo in cui il rapporto tra prodotti dell’uomo (dai materiali pericolosi usati nelle basi militari all’avvelenamento del suolo prodotto dalla petrolchimica all’abusivismo e alla speculazione edilizia che hanno irrimediabilmente modificato le coste deteriorandone l’ecosistema) e natura è da sempre non pacificato, foriero di tragiche conseguenze.

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