La madre di Eva: il romanzo sulla disforia di genere che andrebbe letto nelle scuole

A volte abbiamo tra le mani libri che siamo proprio felici di aver letto. Ad esempio, è felicità quella che ho provato quando ho finito di leggere La madre di Eva (Neo edizioni) di Silvia Ferreri, giornalista e sceneggiatrice: un libro che non si dimentica, che ti si attacca addosso, che ti fa inorgoglire di quello che un narratore italiano è capace di realizzare mixando sensibilità, temi sociali e linguaggio. Il romanzo si erge sull’equilibrio dei sentimenti che lo pervadono: disperazione, amore, forza. Un’impalcatura inviolabile di parole esatte, vigorose, che ha fatto di questo testo un concorrente per il Premio Strega 2018 (era in dozzina).

Il rischio di toppare per la Ferreri c’era tutto, invece ha trovato il modo migliore per risolvere una trama scottante per attualità e numero di tabù, senza far mai apparire i personaggi finti, posticci. La Ferreri ha onorato la narrativa, facendone mezzo di conoscenza del sé e dell’altro. La madre di Eva è il personaggio narrante: alla sua voce, senza nome, il compito di raccontare il tormento della figlia che ha atteso anni di compiere la maggiore età per un unico motivo: diventare uomo e riconoscersi nel sesso che la natura non le ha donato.

Eva vuole essere Alessandro e lo vuole da quando era una bambina. Soffre di una disforia di genere e patisce perché non si accetta, e perché non la accetta la società. La storia inizia nel momento clou della narrazione: siamo in Serbia, Eva sta per realizzare il suo sogno per mano di un chirurgo specializzato e ad attenderla c’è sua madre, che in una sospensione pari ad un’agonia, riprende le fila del tempo, conducendoci avanti e indietro nelle scene che hanno caratterizzato la sua esistenza e quella della sua famiglia. È come alla ricerca di un senso, dilaniata dal dolore per il corpo martoriato della sua bambina ma determinata a non abbandonarla, a non rinnegarla. Una discesa all’inferno che mette a dura prova l’equilibrio emotivo non solo di chi vive la disforia in prima persona, ma pure dei suoi cari. La presa di coscienza dell’identità sessuale di Eva segna nel libro, come nella vita, uno spartiacque e apre la strada verso scelte definitive. Il momento dell’intervento rappresenta per l’evolversi del romanzo la chiusura di un cerchio emozionale. Tra la prima pagina e l’ultima c’è di mezzo una dilatazione temporale che ricrea un effetto suspense sempre presente.

Ogni capitolo, dove il tu e l’io si inseguono, è il frammento di un discorso materno commovente, nobile, che esprime il senso più alto dell’appartenenza, del legame tra una mamma e suo figlio, oltre ogni fatto, ogni ostacolo, con tutte le difficoltà e i cedimenti che ne conseguono. Oltre Eva e sua madre, ci sono altri personaggi importanti: il padre di Eva, la sua psicologa, le insegnanti, la nonna materna. Le vere guerriere di questa storia sono le donne, che si caricano sulle spalle il peso di eventi imprevisti, più grandi della loro razionalità e li attraversano per non morirci sotto, portando per mano, come nel caso della narratrice, anche il loro uomo. Questo libro andrebbe consigliato agli adolescenti, letto nelle classi delle scuole superiori e non perché ci insegni qualcosa, ma perché ci invita al silenzio, all’accoglienza, alla battaglia per difendere quel che ci sta a cuore. Forse il senso della vita stessa pervade le pagine di questo romanzo breve e tenace. Bellissimo.

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