La morte arriva in ascensore | Tutto il fascino del noir argentino declinato al femminile

La grafica in foto è di @andreapennywise (ig)

Qualcosa di simile a una nuvola andava materializzando la propria atmosfera all’interno della stanza, e sfumava i contorni reali delle cose, come se una zaffata di gas stesse entrando da una fessura e offuscasse i sensi. L’oggettività delle cose vacillava.

La notte del 23 agosto, l’androne di un palazzo nell’elegante calle Santa Fe, un uomo, brillo, che si ritira a casa e aspetta che un’ombra esca dall’ascensore. “Le donne aspettano sempre che facciamo tutto noi” riflette Pancho Soler ma quella donna non può fare altro che aspettare. Nel vano di quell’ascensore giace, infatti, il corpo ormai immobile di una donna bella, giovane e bionda, Frida Eidinger, intorno a lei l’inconfondibile odore di mandorle amare del cianuro. È un suicidio? E se, invece, la donna non si è tolta la vita chi è responsabile della sua morte?

Inizia così La morte arriva in ascensore, noir della scrittrice argentina María Angélica Bosco, pubblicato nel 1955 e tradotto per la prima volta in Italia da Francesca Bianchi per Rina Edizioni. Prima di addentrarci nella storia – e nelle storie – dietro questo libro vale la pena di raccontare il percorso editoriale di Rina, nata tre anni fa per volontà di Michela Dentamaro, con l’obiettivo di recuperare scrittrici “dimenticate”, riportando alla luce l’esperienza e il contributo di quelle donne dalla voce coraggiosa, che sono state estromesse dal canone letterario e obliate. Se la prima collana – Libertarie: voci di scrittrici italiane – intendeva valorizzare la ricchezza intellettuale e storica di scrittrici tra otto e novecento, diverse, uniche, originali, anticonformiste, ribelli, libere, inquiete, vere, indipendenti, ironiche, serie e contraddittorie per permettere alla nostra memoria soggettiva e collettiva di acquisire più consapevolezza e sensibilità, la seconda – Água viva – è la collana di letteratura straniera, una scelta di grandi autrici del passato e del presente, una ricerca nell’inesauribile oceano della letteratura mondiale, condotto con un’attenzione particolare a quelle figure e a quei testi che sono apparsi e continuano ad apparire come esseri mirabili e unici, forme di vita complesse e non catalogate, opere inaspettate.

Diretta dallo scrittore Luciano Funetta, Água viva, è, fin dal nome, un omaggio alla grande scrittrice brasiliana Clarice Lispector, che con la sua letteratura innovativa e coraggiosa ha raggiunto profondità inimmaginabili e ancora oggi in gran parte inesplorate. «Fai attenzione, ed è un favore: ti sto invitando a trasferirti in un nuovo regno»: questa frase – proprio da Água viva – è secondo lo stesso Funetta una chiave per la collana, un invito ad “affacciarsi su regni sconosciuti, su panoramiche che non hanno mai visto, su scritture che suonino nuove e inaspettate”.

Ecco allora che questo titolo di María Angélica Bosco rappresenta il primo numero della nuova collana inserendosi perfettamente dentro la storia totalmente indipendente di una piccola casa editrice che non si appoggia ad alcun distributore ma predilige il contatto diretto con le librerie e con i propri lettori.

Nata nell’agosto del 1909 – ma amava togliersi otto anni dichiarando di essere “venuta al mondo quando Yrigoyen fu eletto Presidente” – in una Buenos Aires ancora scossa dai tumulti della “settimana rossa” seguiti al massacro del primo maggio, María Angélica Bosco si trovò immersa per molti anni in un paese ricco e in piena espansione nel quale però le prime repressioni rappresentavano solo i prodromi dei futuri colpi di Stato, dittature e regimi autoritari e antidemocratici. Pur in possesso di un diploma di maestra e già autrice di due raccolte di racconti pubblicati in giovanissima età, María Angélica resta dentro il perimetro di un’agiatezza borghese di origine italiana (suo padre veniva dalla provincia di Salerno) convolando a nozze e con davanti a sé tre figli e una vita da moglie nell’elegante barrio Norte.

All’improvviso, alla soglia dei quarant’anni s’innamora di un altro uomo, vivendo lo scandalo della separazione e il dolore di un allontanamento – momentaneo – dai figli, per precipitare in un’incertezza economica, sociale ed emotiva. Morto prematuramente il marito, Bosco torna alla scrittura senza andare per il sottile, trasformando l’antica passione giovanile in una forma di sostentamento: romanzi e racconti di vario genere, saggi, biografie, copioni televisivi, recensioni, rubriche su quotidiani e riviste, traduzioni dal francese. «Ci educavano per il matrimonio» – raccontò nel 2005, un anno prima della sua morte – «per questo c’è stato un tempo in cui pensavo di costruire la mia vita al braccio di un uomo forte, finché non mi sono resa conto che l’unico braccio davvero forte era il mio, e ho fatto in modo di cavarmela da sola, considerando l’amore solo un allegro compagno di strada. Il lavoro mi ha fatto capire cosa significhi essere padrona della mia vita».

Ecco allora che nel 1955, ormai donna libera e indipendente, dà alle stampe il suo primo romanzo, avventurandosi – come ci ricorda Francesca Lazzarato in una postfazione ricca d’informazioni – “in un territorio dove le donne argentine non avevano mai messo piede”, quello del poliziesco.

Quando non vuoi pensare, parli. È questione di buonsenso. Oppure fai l’amore. Altrimenti, bevi. Qualunque cosa pur di non sprofondare nel pozzo tortuoso e senza fondo dei pensieri.

Un genere, quello noir, che in Argentina aveva trovato grande diffusione in primis per il rispetto che ne nutriva Jorge Luis Borges: a partire dal canone fissato dagli autori inglesi e francesi, Borges – ci ricorda Lazzarato – “lo aveva posto al centro del dibattito letterario, formulando le sei regole di base del poliziesco e scrivendo insieme ad Adolfo Bioy Casares i celebri Seis problemas para don Isidro Parodi”. Di più, in un paese dove il noir sarebbe stato la cifra occasionale o sistemica praticamente di tutti i più grandi: da Julio Cortázar a Rodolfo Walsh, da Manuel Puig a Roberto Arlt fino a Ricardo Piglia che è autore del prologo al libro – “un racconto [che] procede sostenuto da un mirabile uso dei dialoghi che trasmette una drammatica sensazione di suspense e di intimità” – Borges ancora con Casares nel 1945 diede vita a “El Sèptimo Círculo” serie poliziesca che curò per Emecé e sulla quale dieci anni dopo fece il suo esordio Bosco proprio con La muerte baja en el ascensor.

Un ritratto di María Angélica Bosco

In quel momento si accorse che l’anello di ferro nel suo petto si apriva in spunzoni laceranti, devastanti, come i ganci della stanza delle torture, che le si conficcavano nella gola per stritolargliela dando forma al grido.

Ed è qui, in questa sorta di avanguardistico sconfinamento all’interno di un genere dominato dal machismo argentino – se si esclude il precedente di Chi ama, odia, scritto a quattro mani da Bioy Casares e dalla moglie Silvina Ocampo che, però, ebbe a quanto pare peso inferiore – che s’inseriscono alcuni dei meriti di questo libro, soprattutto nella capacità di delineare figure femminili – come Gabriela e Beatriz Iñarra o la bulgara Rita Czerbó – capaci di dominare la scena, anche se qui ancora un passo indietro rispetto all’evoluzione futura della narrazione femminile di Bosco che culminerà nel 1972 in Historia Privada quando le indagini ruoteranno intorno al perno di Laura, una consulente della polizia.

Se, dunque, ne La morte, aumenta la profondità delle figure femminili strappate all’immagine patinata e bidimensionale della narrativa rosa del tempo, è innegabile come attraverso la lettura di queste pagine emerga la sensibilità della scrittrice che nell’affrontare la novela negra muove i primi passi dentro quello che avrebbe poi preso la definizione di thriller psicologico. La morte arriva in ascensore attua con estrema semplicità ma con altrettanta evidente efficacia un meccanismo di attrazione magnetica che, pur rinunciando a colpi di scena estremi, poco a poco trascina il lettore dentro a una rete. L’ambientazione a un tempo corale nella numerosità dei personaggi ma unitaria nel luogo d’azione – lo spazio confinato di un palazzo – offre al lettore quasi un meccanismo teatrale che, in maniera quasi speculare e metaletterario sarà lo stesso utilizzato dagli investigatori per smascherare il colpevole.

Colpisce nel romanzo la dimensione psicologica che emerge improvvisa tanto in monologhi interiori quanto soprattutto nei non detti, nelle frasi lasciate cadere lì, nei pensieri sospesi tra le righe, nelle notti in cui le angosce fanno accadere cose terribili delle quali, ovviamente, non possiamo raccontare o anticipare nulla per non strapparvi al piacere della scoperta e della lettura.

Questa è gente ossessionata dal passato. Si sente nell’aria, qui dentro” – dirà a un certo punto uno dei personaggi ed è proprio questo uno degli aspetti originali del romanzo che, più che a possibili indizi o a un sistema deduttivo, affida la soluzione allo scavo storico e psicologico nel passato – fumoso e complesso – di spettatori, vittime e carnefici.

In ultimo non si può non sottolineare la capacità di Bosco di restituire, soprattutto linguisticamente, l’universo di un mondo cosmopolita e vario quale fu l’Argentina del tempo e che tuttora è una delle cifre di un paese costruito sull’emigrazione e sulla capacità di integrare differenze in un unicum ibrido e metropolitano. Parlando di linguaggio è chiaro quanto può essere stato duro il lavoro di Francesca Bianchi: certamente l’originale fa pesare la presenza di espressioni porteñe come anche la differenza tra il tu spagnolo e il vos argentino e il linguaggio meticcio di personaggi che arrivano dalla Germania o dall’Europa dell’Est.

Senza, dunque, essere in alcun modo un romanzo sperimentale, ma ponendosi dentro a un solco tradizionale e – se vogliamo – popolare, La morte arriva in ascensore rispecchia, però, appieno il fervore culturale della sua autrice, la sua curiosità, lasciando la sensazione – piacevolissima – di un romanzo di chiara presa che allo stesso modo è in grado di sorprendere con tutta una serie di piccoli scarti laterali che – probabilmente – custodiscono il segreto del suo fascino misterioso.

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