La musica della strada, intervista a Dub Fx

Abbiamo intervistato Benjamin Stanford, aka Dub Fx, poco prima della sua esibizione sul palco del Flowers Festival di Torino. Ne abbiamo approfittato per fargli qualche domanda sull’importanza che i viaggi ricoprono nel percorso di formazione di un artista, della street art e del movimento che gli si sta formando attorno.

D: Benjamin Stanford nasce in Australia, ma Dub Fx nelle strade d’Europa, quanto è stato fondamentale per la tua musica il cercare nuovi luoghi e nuove contaminazioni in giro per il mondo?

BS: È stato molto importante, perché il suono di Dub Fx è nato nelle strade di molte città Europa e non in Australia, dove facevo musica molto più banale e pop perché, per vivere di musica, se non vuoi fare matrimoni o djset, devi fare cose poco originali ma che vengano apprezzate da tutti. Un po’ come in Italia, del resto. Quando sono arrivato in Inghilterra suonavo ancora questa musica pop, poi ho sentito quello che ascoltava la gente del posto, in giro per i pub e per la strada. Volevano una musica con più grinta e cattiveria. Lì ho capito che se volevo vivere di musica, e quindi vendere dischi per potermi comprare da mangiare, avrei dovuto cambiare suono. Già dai primi giorni a Manchester ho smesso di fare pop, perché quello che ti chiede la strada è di essere genuino. Le persone ti chiedono di fare qualcosa di nuovo, di prendere quello che sei e conosci e trasformarlo, e capisci come diventare un performer totale. La gente ti paga per sperimentare, è tutto molto meritocratico, se gli piace ti comprano il cd, sennò passano oltre, e comprendi subito quando il prodotto è buono o meno. È fondamentale, allora, vedere il mondo e capire cosa piace alla gente per, poi, farlo tuo.

Dai concerti in strada, dove il contatto con le persone è parte integrante dell’esibizione, a quelle nei club e nei festival. Come cambia il tuo approccio nella dimensione dei live?

Ho sempre fatto concerti, è una dimensione che conosco bene. Fra i 17 e i 23 anni suonavo nei club, con band di ogni genere, dall’heavy metal al reggae, dall’hip-hop al soul, cantavo con dj e facevo sessioni acustiche da solo. Cercavo di sopravvivere con la musica e provare tanti stili mi permetteva di imparare tanto da quei generi diversi fra loro. Dub FX, come dicevo, è nato sulla strada, ma già dopo le prime volte che suonavo alcuni promoter mi hanno notato, invitandomi a suonare nei loro locali e nei festival che organizzavano. Non è un cambiamento vero e proprio, perché ho sempre fatto tutto, sono sempre stato sui palchi e continuo ancora a suonare in strada. Si tratta solo di avere un modo differente con cui approcciarsi al pubblico. All’inizio, quando suonavo in strada volevo vendere i dischi, imparare dagli altri e viaggiare. La prima regola della strada è, però trovare un modo per fermare le persone che passano e fargli apprezzare il proprio stile e, magari, convincerli a prenderti un cd. Suonare in un club è un discorso diverso, non c’è bisogno di fermare nessuno, anzi, bisogna fare il contrario, sono già tutti lì per divertirsi e hanno richieste diverse, vogliono ballare e lasciarsi andare e, quindi, metto su qualcosa di adeguato. In strada faccio i pezzi che in un club non posso fare e, spesso, viceversa. I festival sono un po’ un misto fra le due, devi convincere la gente ad ascoltarti, è vero, e devi concentrare tutta la loro energia su di te e riuscire a farli ballare. Per questo sono la dimensione migliore, secondo me, perché posso fare tutto quello che mi piace, all’aperto e insieme al pubblico. Come dicevo continuo ancora ad andare in strada a suonare ma è cambiato molto rispetto ai miei primi tempo. Non faccio più pezzi per vendere dischi ma, più che altro, vado per sperimentare e lasciarmi andare, per essere più libero rispetto agli show in cui ci atteniamo a una scaletta prefissata, anche per dare al pubblico uno show di qualità. Il pubblico ti chiede i suoi pezzi preferiti, e devi mediare la situazione, in strada possiamo fare quello che ci sentiamo, magari a volte facciamo un’ora dello stesso groove o magari sono quattro o cinque pezzi in tre ore, tutto molto più libero ma continua a essere fondamentale per me.

In questo calarsi in situazioni così diverse quanto è importante l’improvvisazione?

Prima lo era tantissimo, nel senso che non scrivevo tutti i pezzi, tranne certe strofe o i groove che smontavo e rimontavo. Adesso, come ti dicevo, vogliamo dare uno show completo e di qualità e non posso più improvvisare come prima, per quello c’è, ancora, la strada.

In questi anni è cambiato molto l’approccio alla musica, e la tecnologia ha guadagnato sempre più importanza nella composizione.

La prima volta che ho iniziato a usare la loopstation mi è subito piaciuto. È bello pensare di fare tutto da sé, partire da un beat con la bocca per poi metterci un basso e degli effetti, cantarci o repparci sopra. Se ci pensi, poi, è anche bello da vedere. Già sulla strada capivo di aver iniziato a fare qualcosa di nuovo, o che nessuno aveva mai visto fare dal vivo. La tecnologia aiuta a creare nuovi stili, perché le persone si annoiano a sentire sempre le stesse cose. Questo ti spinge a fare sempre qualcosa di nuovo e i computer ci hanno dato questa possibilità. Non vuol dire, però, lasciare tutto a loro, ci sono artisti come gli Arcade Fire che partendo da un suono folk arrivano a crearne uno che nessuno ha mai sentito. Il vero artista è quello, chi è capace di fare qualcosa di nuovo e non fermarsi mai.

In questi anni stiamo assistendo all’esplosione della street art che, da arte di nicchia, ha invaso tutte le città fino a entrare nei musei. Tu hai potuto vivere dal suo interno questa evoluzione, cos’è cambiato rispetto alle stigmatizzazioni e la diffidenza di pochi anni fa?

Ci saranno sempre artisti bravi in quelle che fanno, come in tutte le cose, poi ci sono quelli che copiano soltanto. Più gente brillante si aggiunge più arte ragionata si crea attorno al confronto, più si crea il rispetto e l’attenzione. È sempre stato così- Anche il rock’n’roll all’inizio non si poteva ascoltarlo perché dicevano inneggiasse a Satana e tutto il resto, ora siamo a un punto che anche le nonne ascoltano il pop rock. Secondo me, perché un’arte si affermi, bastano soltanto persone che non si accontentino di copiare, ma che aggiungano qualcosa di nuovo e personale in quello che hanno imparato. Anche io faccio così nella mia musica. Non si deve reinventare la ruota, basta soltanto aggiungere una parte di sé originale e il resto viene da sé.

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