La storia jazz del distrutto Chad

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Gli tremavano così tanto le mani al vecchio Chad negli ultimi tempi che ormai faceva fatica anche a leggere. Le sue unghie erano diventate irregolari, non più curate come quando apparì una sera d’ottobre al Jazz Club, tra Via Gargano e Corso Raffaeli, ma la bottiglia era sempre la stessa. Era diventato un obbligo, tra i ragazzi del quartiere, dedicare un brindisi al tremore del distrutto Chad, prima di godersi il frutto del loro lavoro, seduti all’unico tavolo sulla strada tra il sudore e le gambe scoperte che preannunciavano una nuova estate. I tremori del distrutto Chad erano iniziati quando la quantità di alcol aveva superato quella del sangue e quando Anita, per la prima volta, si era rifiutata di dargli quello che credeva gli spettasse. «Devi smetterla di perseguitarmi, non sono una tua proprietà, mi merito qualcosa di meglio» gli aveva detto una sera al Jazz Club, prima che si esibisse. Da allora, il distrutto Chad, aveva scambiato la sua voce da baritono per una bottiglia di bourbon, la sua band l’aveva sostituito con un ragazzo bianco e lui viveva di una antica gloria statunitense. Raccontava ai ragazzi storie su Miles Davis e di quando gli aveva autografato la tromba, o di come, entrato per farsi fare un vestito dall’allora sarto John Coltrane l’avesse convinto a suonare con lui. Nessuno ha mai saputo quanti anni avessero il vecchio distrutto Chad e la sua pelle scura come la notte, dove avesse imparato l’italiano o, semplicemente, dove trovasse i soldi per rivivere delle sue gioie passate. A nessuno, però, importava davvero. Era una sagoma da quartiere, uno degli ultimi matti del villaggio destinati ad estinguersi tra la riqualificazione delle metropoli e i piani comunali di innovazione, come quella volta che dormendo sul marciapiede era stato lavato dall’acido che le macchinette spargono per pulire la strada e si era fatto una settimana al Maggiore, con tutte le bende a coprire le parti arrossate, «Hanno provato a farmi diventare un bianco, ma il distrutto Chad ha la pellaccia negra e dura» aveva detto al dottore del pronto soccorso quando era arrivato mezzo cieco. Quella fu l’ultima volta che lo si vide sobrio e senz’anima, un povero Hendrix senza chitarra sperduto in un parco giochi. Al suo ritorno tutto il Jazz Club era in movimento, Mario stava per lasciare la gestione ad una coppia di ragazzini di buona famiglia che lo volevano rendere quello che è oggi, un fottutissimo rock club per scambisti e finti marinai col gusto per gruppi sconosciuti, ma non si sono mai trovati i nuovi Rolling Stones. Il vecchio proprietario regalò una bottiglia a Chad prima di chiudere e lui, non volendola bere da solo, lo seguì fino a casa, tanto da dormirgli sotto al portone. «Nessun bianco può fare la carità al distrutto Chad, perché il distrutto Chad è un capitano del Vietnam e quello che ha lo condivide prima con la sua truppa» aveva detto a Mario. E se la bevvero davvero, ma a quella ne seguirono altre, troppe per le rispettive età, che Mario non si vide più: «Non perdo un amico oggi, perdo un barista, un maestro e un soldato» aveva detto al funerale, piangendo lacrime salate di capitano sopravvissuto all’ennesimo giro di giostra infernale. Un giorno arrivò un ragazzino che sosteneva di essere suo figlio, il figlio del distrutto Chad si chiamava Peter, assomigliava in maniera incredibile ad Anita ma distrutto Chad, sorridendo dal bicchiere, gli rispose: «Ti ho già maledetto buttandoti in questo mondo, non condannarti anche a tutto questo, ascolta del buon jazz, cerca di essere più vivo che morto, trovati un lavoro e sii il padre che non sono stato io», non si rividero mai più, ma Peter non se la prese. Il distrutto Chad non aveva più cuore, i suoi tremori ne occultavano il suono ed ormai si avvicinava zoppicando verso la meta a cui tutti gli uomini sono destinati, anche i più grandi. La moglie di Mario, Nina, lo prese con sé per qualche tempo, come se tra gli ultimi desideri del defunto marito ci fosse stata una parola per il negro distrutto, ma durò poco, perché Chad sembrava inadatto a vivere insieme ad una donna con cui non poteva avere rapporti: «Si può sbagliare tutto nella vita, ma rubare la donna ad un amico, questo mai» ripeteva ai ragazzi, ormai cresciuti, che ancora si ritrovavano sui tavoli per strada. E, comunque, anche se avesse voluto i tremori si erano fatti così consistenti che non sarebbe riuscito ad ottenere davvero qualcosa. Ogni tanto, quando i tremori gli davano un po’ di pace, il distrutto Chad si metteva al piano, suonando non qualcosa di particolarmente melodico, ma una canzone che, a suo dire, aveva fatto innamorare tutte le donne che aveva incontrato e da cui era stato lasciato. Un medley fra Charlie Parker e Dizzy Gillespie, proclamandosi cofondatore del bebop insieme agli altri due negri: «Era estate a New Orleans, quando Charlie, Diz e io..» iniziava sempre così prima di sbiascicare qualche canzone. Il distrutto Chad forse raccontava bugie ma ogni tanto tutti hanno bisogno di credere a qualcosa e quando il distrutto Chad morì e il Jazz Club si riempì di quella gentaglia, anche la città si spense un po’ per ricordarlo. Al suo funerale i ragazzi, ormai adulti, del tavolo in strada fecero suonare un vinile jazz, per annunciare ai suoi eroi che presto si sarebbe ricongiunto a loro, o forse per credere alla storia che gli raccontava sempre il distrutto Chad, che nessuna anima si può perdere se accompagnata dalla voce di Cab Calloway.

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