La svolta conservatrice sull’aborto

a cura di Marianna Abbate

C’era una volta Roe vs Wade: era il 1970 quando Norma Leah McCorvey – la Jane Roe del caso, chiamata con un nome fittizio per motivi di privacy – decise di fare ricorso alla Corte Distrettuale del Texas per poter abortire. Da una parte Jane e i suoi avvocati Linda Coffee e Sarah Weddington, dall’altra Henry Wade, procuratore distrettuale che rappresentò lo stato del Texas nel processo. Jane vinse nel 1973 riconoscendo «il diritto alla privacy basato sulle nozioni di libertà individuale». Tra le libertà in questione è compresa la possibilità per una donna di scegliere volontariamente di abortire. Attraverso questa storica sentenza, la Corte Suprema degli Stati Uniti rese così legale l’aborto come scelta libera e personale delle donne. Sentenza non assoluta, ma che cambiò la legislazione e la storia degli Stati Uniti.

Quasi 50 anni dopo, sembra passato solo un secondo. Il caso Roe cercava di stabilire e mantenere un equilibrio tra i diritti della donna di compiere una libera scelta e in qualche modo l’interesse dello stato di preservare l’eventuale nascituro, eppure la discussione sull’interruzione volontaria di gravidanza è ancora accesa. In realtà, negli Stati Uniti la legislazione che regola l’aborto cambia in base alle approvazioni dei singoli stati e solo dal gennaio al maggio 2019 sono state promulgate 21 leggi che limitano l’aborto; da Roe vs Wade si passa a pro-choice vs pro-life. In Alabama è stata approvata la legge più restrittiva di sempre: l’aborto è vietato anche in caso di stupro o incesto – costringendo così una donna a subire una doppia violenza, quella fisica e quella personale – e i medici che praticano l’interruzione di gravidanza rischiano fino a 99 anni di carcere. Unica eccezione è il caso in cui la madre si trovi in serio pericolo di vita. Da qui, sono state approvate – ma non ancora entrate in vigore – leggi antiabortiste in Missouri, Ohio, Mississippi, Kentucky e Georgia. Il Missouri si schiera con l’Alabama e la legge entrerà in vigore il prossimo 28 agosto. In Ohio dopo il primo battito, è già reato. Anche la Louisiana si unisce al coro, con 79 voti a favore e 23 contrari, vieta l’aborto oltre la sesta settimana. Sei settimane corrispondono a un mese e mezzo, tempo in cui è anche difficile rendersi conto di essere incinte. Stati conservatori e leggi anticostituzionali: è questo il paradosso del Paese più libero di tutti.

Le risposte all’ondata pro-life, che rivendica il diritto alla vita, non si sono fatte aspettare. Le più chiacchierate riguardano i colossi Netflix e Walt Disney: la piattaforma di streaming ha minacciato di sospendere la produzione di serie tv e film nel momento in cui la legge antiabortista dovesse entrare in vigore in Georgia nel 2020, mossa non da poco considerando che la Georgia ha ospitato (ricavandone profitto) le riprese di serie tv di successo come Stranger Things e Ozark; stesso progetto intende portare a termine la Walt Disney Company stando a quanto detto dal Ceo Bob Iger. L’attacco da parte dell’industria cinematografica – industria che in Georgia crea circa 90 mila posti di lavoro – potrebbe sortire effetto, ma non è l’unica a schierarsi contro le leggi approvate. Dall’Italia, ad esempio, ci ha pensato Gucci. Lo scorso 28 maggio, in occasione della presentazione della nuova collezione Gucci Cruise 2020 ai Musei Capitolini di Roma, il direttore artistico Alessandro Michele ha lanciato un messaggio chiaro verso la libertà di espressione della propria persona e femminilità. Michele ha infatti deciso di mandare in passerella capi iconici, tra cui un vestito con un utero ricamato sul ventre, una felpa con la data 22.5.78 – che segna l’approvazione della legge 194 sull’interruzione di gravidanza in Italia – e la frase “my body, my choice” stampata su una giacca.

 

La 194/78 rompeva un tabù, non del tutto in disuso considerando le percentuali degli obiettori di coscienza in Italia, in cui in alcune regioni superano il 90%. L’interruzione volontaria della gravidanza è garantita in Italia proprio dalla legge 194, ma c’è chi ancora non la vorrebbe come il senatore leghista Simone Pillon – anche convinto sostenitore del Family Day – il quale punta a raggiungere in Italia la cifra aborti zero. Pillon, intervistato su Radio 24, si è mostrato favorevole alla tendenza conservatrice adesso in atto negli Stati Uniti; il senatore ha fatto leva sul diritto alla vita del feto il quale non è «un grumo di cellule». Il feto non sarà un grumo di cellule, ma neanche una donna lo è. Le leggi antiabortiste mirano a tutelare la donna solo in caso di serio pericolo di vita: ma cosa c’è di più pericoloso di negare l’autonomia e la capacità decisionale sul proprio corpo? Simone de Beauvoir diceva «se io voglio definirmi, sono obbligata anzitutto a dichiarare: “sono una donna. […] La donna ha delle ovaie, un utero; ecco le condizioni particolari che la rinserrano nella sua soggettività»; tota mulier in utero – ciò che sono e ho, mi caratterizza.

A causa delle forti pressioni esercitate dai governi più conservatori, l’aborto è ancora una pratica da demonizzare. Ma riflettendo sull’eventualità che l’aborto diventasse effettivamente illegale in più stati, questo non eliminerebbe il problema – pur ammettendo che ce ne sia uno. Quello che i pro-life non hanno considerato è che le leggi anti-aborto negano la possibilità di fornire di una procedura medica – la rimozione del feto o dell’embrione dall’utero – per vie legali. Il diritto alla vita, se così vogliamo chiamarlo, sarebbe comunque a rischio in quanto vietare l’aborto non significa eliminare la pratica dell’aborto: questo condurrebbe le donne che vogliono abortire ad affidarsi a metodi illegali e a cliniche non autorizzate, il che metterebbe a serio rischio la salute della paziente. Il quadro che si profila è piuttosto ostile verso le donne, nonché inutile. L’esperienza di interruzione della gravidanza è stata sempre declinata nel trauma e nel dolore legittimo della perdita di un figlio e mai come volontà di espressione personale: è forse una o entrambe le cose; ma ciò che è, non spetta a noi dirlo. La svolta conservatrice si traduce dunque, in questo senso e non solo, in tanti passi indietro.

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