Nuove definizioni del dolore | La vita di chi resta, Matteo B Bianchi

La vita di chi resta” è il nuovo romanzo di Matteo B. Bianchi edito da Mondadori, un memoir insolito perché attinge dalla verità e la confeziona come la migliore narrativa. La vicenda è quella di un giovane uomo che perde il suo ex compagno pochi mesi dopo aver posto fine alla relazione. Il giovane uomo è Bianchi circa vent’anni fa, l’ex compagno è S., l’unico personaggio del romanzo ad avere un’iniziale come nome, che sceglie di suicidarsi nella casa in cui hanno vissuto insieme fino a poco tempo prima.

Il racconto è tutto al presente, anche se sono passati vent’anni da allora, ma non poteva essere altrimenti perché il tempo del dolore è continuo, un eterno “contemporaneo” che fa male sempre, solo con diverse intensità. È proprio il dolore il tema portante della narrazione, frammentaria come a pezzi è la vita della voce narrante; e dolore è una parola che Bianchi ripete fino allo sfinimento suo e di chi legge, ma sfinimento che serve come rito di fratellanza che unisce attraverso il libro. Il dolore ritorna in ogni pagina e frase arricchendosi di sfumature sempre nuove perché non basta la sequenza di lettere per descrivere la condizione dei superstiti, coloro che rimangono dopo il suicidio di una persona cara. Il loro dolore è molteplice e contiene lo shock iniziale, il senso di colpa per non aver intercettato le volontà altrui, la rabbia per essere stati lasciati, la vergogna di confrontarsi con una società sorda nei confronti del tema. Bianchi rivela di aver scritto questo memoir anche perché forse sarebbe servito a lui leggerlo all’epoca, privo com’era di strumenti di supporto. Non esiste in Italia, infatti, un protocollo di protezione e cura per chi resta, solo pochi e rari casi virtuosi che Bianchi, sapientemente, racconta nel suo libro. Il suicidio è un tabù, ma lo sono anche i pensieri che lo precedono e parlarne è talmente difficile che la prevenzione diventa una chimera lontana che pesa esclusivamente sugli affetti. E loro, sprovvisti di ogni rete di tutela tanto quanto il suicida, annaspano in un brodo primordiale di emozioni contrastanti che convergono sulla vergogna. Il dolore contiene questa vergogna in ogni stadio del lutto, che si fa presenza ingombrante per vent’anni nel caso di Bianchi e poi si smorza, fino a diventare un eco di quello che è stato, quando diventa più urgente continuare a vivere. Non si dimentica uno shock emotivo del genere, piuttosto ci si fa i conti portandoselo sulle spalle: invadente, perfido, brutale. “La vita di chi resta” contiene in sé un incedere progressivo di frasi corte, definizioni, domande, di cui alcune anche retoriche, e metafore che intagliano la forma del dolore con altre parole affinché il dolore stesso, come concetto intangibile, si faccia concreto e assuma nuove sfumature. Bianchi si assume la responsabilità di dare sostanza nuova alla sua definizione e ci gira intorno, la riscrive con piglio ossessivo, pur non centrandola mai appieno, perché è impossibile, ma lambendola così che la parola dolore, alla fine, si carichi anche del suo lutto privato. L’identificazione totale col dolore prosegue ininterrotta fino al già citato momento in cui cambia forma e si placa, almeno per un po’. Mistero delle emozioni umane.

La prosa di Bianchi si riconosce sempre: è diretta, pulita e ricorda che non è una necessità abbandonarsi al lirismo puro per essere scrittori e scrittrici, anche se il lirismo, cioè quel bello negli accostamenti delle parole, nelle metafore, nel ritmo delle frasi, spunta pacato nel sistema di frammenti che costituisce il romanzo. Così, per esempio, Bianchi racconta l’ossessività del senso di colpa.

Mi chiudo la porta alle spalle, mi sfilo lo zaino e mi getto a terra. Non cado, non inciampo, mi lascio andare verso le piastrelle, lascio che il pavimento mi abbracci con la sua fredda durezza ed esplode il pianto che ho trattenuto per tutto questo tempo, un’apnea di dieci minuti, sono un mostro, S. perdonami, sono un mostro, mondo perdonami, sono un mostro, non potrò mai assolvermi per quello che ho fatto, sono un mostro, sono un mostro, aiuto, sono un mostro, qualcuno mi aiuti.

Copertina libro, foto di Alessia Ragno

Ho elaborato da poco la consapevolezza che un libro è negli occhi di chi legge. Prima ero convinta che ci fosse una sola verità granitica ad ammonirci se non l’avessimo compresa a lettura ultimata, ma la verità è che, una volta andato in stampa, il romanzo abbandona le intenzioni di chi l’ha scritto per esistere solo nel riflesso di lettrici e lettori. “La vita di chi resta” me l’ha confermato, proiettando luce e speranza – perché arrivano, per fortuna – sulle opinioni finali di chi lo legge, ma al contempo gettando me nella disperazione dei ricordi personali, sulle luci di un’ambulanza che arrivava in una casa non mia, ma che sbarrava il portone d’ingresso comune, o su pensieri passati che per vergogna sigillerò nella parte della testa in cui archivio i miei cedimenti. E come scrive Bianchi, il suicidio sembra sempre appartenere alle vite disastrate che non sono le nostre, a persone rotte nel profondo che non potremmo mai aiutare, ma come si sopravvive quando queste persone, invece, sono con noi, sono compagne, compagni e familiari con cui abbiamo parlato solo la sera prima per telefono? La risposta è proprio Bianchi a darla, e la cosa mi sorprende dopo duecento pagine di pianti – miei e suoi -, di punti di contatto inaspettati pur nell’egoismo del dolore, quella convinzione, lecita, che nessuno può capirti e che vadano al diavolo con le loro banali questioni irrisolte, sono io a viverla peggio di tutti. Il dolore rende soli, invecchia, trasforma e segna esistenze; c’è un prima e dopo, ma a volte del dopo non si è nemmeno tanto sicuri.

Me lo ripeto allo sfinimento nei mesi successivi alla tragedia, imponendomi di crederci. Si può imparare a convivere con un lutto simile, ci si può abituare a questo vuoto interiore che risucchia tutto come un buco nero. Arriverà un giorno in cui questo sfregio farà parte di me senza più turbarmi, una caratteristica come tante.

In questa frase c’è il seme del futuro che lotta per attecchire, ma ci vorrà ancora del tempo perché germogli, ci sono ancora strade buie e accidentate da attraversare.
Non sono stata l’unica a commuovermi per il «revisionismo climatico», la realizzazione che ogni ricordo dell’amato ha in sé il sole e il cielo azzurro, «un’estate perenne che contrasta il gelido inverno che le è succeduto»; e non sarò nemmeno l’unica a regredire nel dolore col protagonista che, dopo la scoperta, aspetta l’arrivo dei genitori accucciato per terra.

Regredisco al me stesso infantile che aveva paura del buio, e neppure poteva immaginare quanto il buio vero fosse spaventoso. Ho paura, venitemi a prendere, Ditemi che è solo un brutto sogno. Che passa tutto.

Ho persino provato una nostalgia reale anche di momenti e persone che ho qui con me e accarezzo ogni sera. Leggo e spero, con una forza primitiva e infantile che mi rende nervose le mani, che non vadano mai via, ché io questo dolore lo provo già da sola, non dovete aggiungere carico ulteriore, non ce la farei.
Bianchi, però, pure nell’abisso, si prende cura del racconto e, indirettamente, anche di chi legge, ragionando sui tempi di svelamento degli eventi, in fondo è un libro con una gestazione di vent’anni, non sarebbe potuto essere altrimenti; gli eventi cronologici, allora, sono romanzati per volere dell’autore e ad essi alterna citazioni di altri libri, la salvezza più tangibile, incontri con chi ha conosciuto lo stesso dolore e con medici che provano a dissipare il buio che avvolge il tema suicidio e la vita dei sopravvissuti.
«Se scrivo questo libro è anche perché avrei voluto leggere io allora un libro così, sul dolore di chi resta», scrive Bianchi, ma anche sul futuro di chi resta, aggiungerei, perché il grande insegnamento di questo romanzo è che all’improvviso, nel buio che oscura ogni normale funzionamento, può arrivare, inaspettato, il «momento di salvarsi».

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