La vita involontaria, il romanzo dimenticato di Brianna Carafa

Ci sono autori, molto più spesso autrici, che il tempo ricopre di polvere e dimenticanza. Quante parole, quante storie rischiamo di smarrire perché sono fuori dai radar degli editori? Qualche anno fa una ripubblicazione di Pironti ha sottratto all’oblio Malacqua di Nicola Pugliese: è solo un esempio dell’attività di ripescaggio e scouting editoriale. Adesso grazie ai tipi di Cliquot rileggiamo La vita involontaria, il romanzo breve di Brianna Carafa, psicologa, poetessa, autrice di racconti e di due romanzi. Con questo testo Carafa è stata finalista al Premio Strega nel 1975 e nonostante i riconoscimenti dell’epoca, di lei e della sua scrittura sapevamo poco e niente. Come osserva Ilaria Gaspari nella prefazione della nuova edizione senza l’intervento di Cliquot questo romanzo avrebbe fatto la fortuna occasionale di frequentatori di mercatini e di bancarelle di libri. Non sarebbe la prima volta che un lettore si ritrova tra le mani pubblicazioni fuori catalogo degne di una collezione. Con il recupero de La vita involontaria Cliquot rende giustizia a una scrittrice raffinata e palpitante che ha raccontato con fare pavesiano la scoperta di sé stessi e le turbolenze emotive di un ragazzo ad un passo dall’età adulta.

La voce narrante è di Paolo Pintus, protagonista e alter ego della scrittrice. Paolo cresce senza genitori a Oblenz, località marina sovrastata da un manicomio (i Tetti rossi). Le prime pagine sono una fotografia di questa cittadina incrostata di mare e sofferenza, capace di incutere timore e una forma di riluttanza in chi la scruta, in chi la interroga. Il protagonista lascia Oblenz per raggiungere Vallona, una località nebulosa e gelida. Lo fa per studiare filosofia, spronato da un amico che lo invita a mettere da parte le insicurezze e a dire addio ai luoghi dell’infanzia. L’esperienza universitaria è una girandola di relazioni: è a Vallona che Paolo si innamora, conosce il sesso e assapora le prime delusioni sentimentali. Il suo sguardo è romantico ma anche sarcastico, beffardo. L’amicizia con un ragazzo e il suo suicidio lo segnano e determinano una virata nei suoi programmi universitari. D’un tratto, la filosofia non esercita su Paolo alcuna fascinazione e, dopo un periodo di crisi, si iscrive a psicologia.

La trama del romanzo insiste sulla solennità di questa fase, che Paolo vive come un cambio di pelle, una sorta di trasmigrazione. Il suo sguardo sulle prime è pregno di inesperienza, provincialismo, goffaggine: il confronto con professori, conoscenti, ragazze sicure e per niente malleabili generano una mutazione nel protagonista, che abbandona il bozzolo di insicurezze e ruminazioni per farsi travolgere da nuove sensazioni. La vita involontaria è la celebrazione di una maturazione, intesa più come cammino esperienziale che come avvicinamento ad una forma di saggezza. Nel titolo c’è l’essenza della storia: vivere è anche farsi trasportare da una corrente, accettare l’involontario, appunto. Quando Brianna Carafa scrive questo romanzo non è più una ragazza e una manciata di anni la separa dalla morte improvvisa. Ignora la fortuna del libro che finisce nella selezione per il premio più ambito della narrativa italiana. C’è da subito un riconoscimento della sua espressività, della sua scrittura misurata e fulgida. Ha già pubblicato: è del 1957 la silloge Poesie e alcuni suoi racconti trovano spazio su diverse riviste dell’epoca.

Brianna Carafa nasce a Napoli, ma cresce a Roma con la nonna materna di origini polacche e suffragetta della prima ora. È nella capitale che studia, legge, diventa psicanalista e scrive. Il suo ultimo romanzo, Il ponte nel deserto esce postumo. Dalla poesia la nostra scrittrice mutua l’attenzione per i particolari, lo sguardo indagatore, la capacità di cogliere l’umore delle città e degli oggetti, la propensione per una ritmicità innegabile. Le donne della sua famiglia sono battagliere, colte. La figura della nonna è determinante nella sua vita, come nel romanzo lo è in quella di Paolo. La trascuratezza che i lettori e gli editori hanno riservato a Carafa negli ultimi cinquant’anni è la conseguenza della facilità con la quale storie non elettrizzanti ma che fungono da specchio per il lettore finiscono nel dimenticatoio collettivo. Inutile negare che nel processo di rimozione abbia avuto peso anche il fatto che l’autrice è una poetessa, conoscitrice per studi e per mestiere della debolezza della mente umana. C’è una dose di scomodità in ciò che esprime.

La vita involontaria approfondisce l’angoscia e l’impotenza che avverte un essere umano man mano che sta al mondo, man mano che è costretto a riorganizzarsi, a inventarsi una maniera per esistere. La capacità di riprogrammare i propri piani, di accogliere l’imprevisto, di fronteggiare fantasmi e centinaia di parole stratificate nella memoria sono i veri temi del libro. In esso si riflette l’esperienza dell’età adulta dell’autrice, dissimulata con l’impulsività e impreparazione del protagonista maschile. Carafa fa ricorso a tutto ciò che ha sentito, visto, abbracciato per tratteggiare il suo eroe anonimo. Non manca un retrogusto amaro: ogni godimento è prismatico. La vita involontaria echeggia allora come un testamento esistenziale, un avvertimento: l’estrema consapevolezza che deriva dall’essersi sentiti almeno una volta una foglia nel vento.

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