La voce di Neil Young

World Record, il nuovo album di Neil Young & Crazy Horse, non è il migliore album di Neil Young. E come potrebbe. Nella sua cinquantennale carriera Young ha tirato fuori dischi immaginifici come After the Gold RushHarvest, un’oscura trilogia di album devoti alle sterminate praterie del dolore, epiche registrazioni in acustica come il Live at Massey Hall del 1971 – una roba che già dal primo ascolto ti spezza in due parti. Il volto di Neil Young è il volto di un sopravvissuto, di un eroe scintillante del folk-rock, di un cantore di versi immortali come «It’s Better to Burn Out Than to Fade Away». Neil Young e la sua chitarra sono quasi due esseri inscindibili, ma è soprattutto nella sua voce che troviamo un elemento magico e incantatore. Ci sono voci al mondo che sono strumenti sovrannaturali, Tim Buckley e Joni Mitchell o Nick Drake, è per voci come la loro che amiamo la musica come qualcosa che sta fuori dal tempo, è per voci come quelle che ci ritroviamo incantati, quasi costretti al riascolto, strappati alle nostre faccende per rimettere in circolo certi dischi, certe canzoni, un breve motivetto che ci ha stregato.

A 77 anni il cantautore canadese è ancora un prolifico musicista rock che mai si arrende, e c’è qualcosa di miracoloso nel ritrovare la voce di Neil Young come se quasi niente l’avesse scalfita. Basta mettere a suonare World Record per accorgersi di come la voce di Young sia ancora in uno stato benedetto. Com’è possibile. Per tutti quanti il tempo passa e fa il suo corso. Nella parabola finale della sua carriera Lou Reed non riusciva più a cantare alla stessa maniera di quando era un giovane gringo in giacca di pelle. Anche l’ultima voce di Bob Dylan non è più quella di Freewheelin’, è diventata grassa, più grassa di quanto già non fosse in alcune delle sue cento trasformazioni, meno crooner di Nashville Skyline, più crooner di Highway 61 Revisited. E quanto è diverso il giovane Leonard Cohen di Songs from a Room dal notturnale Cohen di Thanks for the Dance. A meno che Neil Young non sia in possesso di uno strumento speciale in grado di deformare la sua voce, è impressionante ascoltare quanto poco sia invecchiata; il tempo gli si è depositato in gola e Young sembra ancora cantare come un giovane ragazzaccio nella Carnegie Hall. Mantiene vivo l’entusiasmo, apre i suoi archivi, fa uscire vecchi bootleg e nuovi album, annuncia un documentario sui tempi di Harvest: alterna ciò che è stato a ciò che sarà, per tenere fede a ciò che è.

E allora non è nemmeno importante se World Record sia o meno un grande disco. Per la maggior parte vi diranno che si tratta di un disco tremendo, che sarebbe tanto meglio se Neil Young si ritirasse nel suo ranch; ma chi siamo noi per dire proprio a Young di smettere, o per dargli il voto. Anche a 77 anni, Neil Young è come quei giovani audaci surrealisti che imbrattano un quadro per dare una scossa al mondo; si diverte, suona, compone e canta; ci invita a combattere il cambiamento climatico come un ragazzo ardito che ha ancora tutto l’avvenire davanti. World Record è un’ode alla terra, l’apocalittico songbook di appunti di un cantautore scuro e abbagliante che suona, compone e canta perché non riuscirebbe a vivere altrimenti. Finché ha voglia di fare musica Young la farà; e finché ha voglia di fare musica noi ce ne faremo afferrare. Il tempo scorre, e la voce di Neil Young non è mai ruggine – ha il suono di un crepuscolo bianco, a volte sfatto, stonato e sibillino, ma ancora tentacolare e avvolgente, capace di insinuare la luce nelle tenebre e viceversa.

 

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