Le belve dentro di noi | Sul nuovo romanzo di Alfredo Palomba

A volte mi sembra che l’intera città sia una creazione della mia fantasia, che non esistano il Montone e tutte le creature che perfino un fiume così insignificante trasporta, né la piazza, la scuola, l’edificio delle poste di epoca fascista a forma di M, la mia stanza che si rimpicciolisce giorno dopo giorno e diventa sempre più simile a un buco spaventoso. È come se tutto si annebbiasse e i contorni divorassero l’essenza delle cose e delle persone.

Qual è lo scenario di un incubo? Quali le possibili quinte davanti le quali mettere in scena il racconto allucinato dello scollamento progressivo dalla realtà che ci circonda, filtrato attraverso una sensibilità estrema e angosciata, nata dall’insanabile frattura di un punto imprecisato del proprio percorso umano? Per il suo secondo romanzo Quando le belve arriveranno – ancora per Wojtek Edizioni – Alfredo Palomba, di Scafati, classe 1985, sceglie la provincia del nord, un paesino anonimo pur facile da intuire – e non solo per ragioni biografiche – nell’area tra Forlì e Cesena nella quale arriva, all’inizio dell’autunno, Bassano – questo il nome del protagonista, identificato dal solo cognome soltanto alla fine del romanzo – un ragazzo del Sud alla ricerca di un lavoro qualunque pur di poter finalmente mettere una distanza – a suo modo incolmabile – tra se stesso e la madre alcolizzata e una nonna-pianta, ridotta a un vegetale nel suo letto di contenzione dove la malattia l’ha resa incapace di comunicare.

Però osservo, l’ho sempre fatto: lo scandaglio analitico di luoghi e persone non mi gratifica, non contribuisce a chiarire nulla, è mera registrazione di dati. Mi faccio trasportare da quanto ho intorno, vivo come se fossi un fantasma e, quando mi accorgo di non essere del tutto invisibile agli altri, provo un enorme disagio.

L’incomunicabilità – non solo nel senso univoco della volontà di espressione verso il mondo esterno ma, ancora di più, come terreno comune d’incontro con la figura dell’altro – è certamente uno dei temi portanti del libro. Bassano ha accettato un lavoro come insegnante di sostegno con I’unico compito di assistere il piccolo Haochen – «in tutto peserà trentacinque, quaranta chili: rachitico, gambe sottosviluppate, testa piccola e irregolare che somiglia a un grosso limone con sopra una ciotola rovesciata di spaghetti cinese neri e liscissimi» – un ragazzino afflitto da una gravissima malattia e capace di pronunciare il solo monosillabo “Ma” che «oltre a costituire l’intero vocabolario di cui dispone, racchiude tutta la misteriosa gamma dei suoi sentimenti di alieno cinese».

In fuga dalla sua famiglia, dall’unica – fino a quel momento – possibile rete di rapporti umani, Bassano è costretto a relazionarsi al microcosmo straordinario rappresentato dalla scuola; tutti i suoi nuovi rapporti umani si consumano attraverso gli incontri quotidiani che nascono tra quelle mura. I bambini disabili, in primis, narrati come tutt’altro che vittime – in tal senso appare emblematica la citazione – “Maybe”. He said hesitantly, “maybe there is a beast. […] What I mean is… maybe it’s only us” – in esergo dal William Golding de Il signore delle mosche, anzi, carnefici a loro volta, frutti marciti della loro stessa marginalità sociale. Insegnanti insensibili e distratte pronte a tessere una rete di dicerie e offese a ragazzine fragili molto più giovani di loro. Il professore di Tecnologie, Amedei, un maestro sadico e crudele, ossessionato dal mondo incel che, più che vivere, è rintanato in un appartamento dove come un nerd è attaccato al suo computer e alla sua rete, immerso in un vagheggiato amarcord nazista dal quale emerge l’ammirazione per Dante Virgili e il suo La distruzione. Il bidello Vanni con la sua compagna Patti, nella casa dei quali ha preso in fitto una piccola stanza, incarnazione della mediocrità di una vita pusillanime e infima.

Un universo di emarginati, solitari, disperati che consumano la vita quotidiana dentro una spirale di banalissima abiezione, intrappolati – come un insetto in un’ambra molle – in una disumanità provinciale e misera che agli occhi disperati e allucinati di Bassano appaiono ogni giorno come la personificazione in carne e ossa dell’orrore che è il riflesso della sua anima e della sua concezione del mondo.

Avrei voluto riuscire a deluderla fin da subito. Penso, mentre faccio l’amore con lei, alla mia fisiologia, al suo alito caldo, alla mano che mi accarezza la nuca, al tono imperativo di quel “verrai?” sento di starle rubando qualcosa. Sento i latrati dei cani nella testa. Sento la mia stanza che perde centimetri.

E non basta, non è sufficiente, nemmeno è salvifica la figura di Francesca, una giovanissima ragazza volontaria del servizio civile che di Bassano s’invaghisce – o s’innamora ma Quando le belve arriveranno è un romanzo così disperato da non riuscire ad accogliere qualcosa come l’amore – che, pur strappandolo a una verginità sessuale, nulla può contro quella emotiva che in lui non riesce a manifestarsi se non attraverso un rapportarsi malato al mondo esterno che si fa progressivamente sempre più spaventosamente psicotico.

Per me è il bambino più fortunato della scuola. Sconfitto al pari di tutti gli altri ma senza saperlo, senza potersi pensare, come gli animali. Accudito col minimo necessario di cure, è destinato a vivere una beatitudine costante e perfetta, immune alla sofferenza di essere un umano. Quando starà per morire, non lo saprà. Se sua madre morirà prima di lui, a stento sarà in grado di accorgersene. Si abituerà all’assenza di Mei Lin alla svelta, se ne dimenticherà e basta. È un illuminato, è davvero felice.

A smuoverlo in qualche modo è il solo contatto con Haochen: i suoi silenzi, la traccia debolissima che sembra avere dentro di sé di riconoscimento del mondo esterno – la stessa identificazione che per Bassano si traduce nell’epifania del contatto con la dimensione del male e di un orrore quasi conradiano – funziona da detonatore di quello che – senza aggiungere altro – scopriremo essere l’innesco, quasi il transfer incontrollato, di un trauma pregresso. L’esplosione cui Bassano andrà incontro e che ci condurrà verso un finale a un tempo tanto inaspettato quanto inevitabile, è contenuta nel trionfo stilistico del libro e di una scrittura che, pur non rinunciando a certe caratteristiche dell’esordio – qui evidentemente declinate nel registro del grottesco talvolta greve e crudele – è al servizio della creazione di un’atmosfera di angosciante onirismo.

Ciò che sta cambiando,  che è ormai cambiato, in questa città e nei suoi abitanti, continua a sfuggirmi. Ma si espande, e parla la lingua di queste risate feroci, sfottenti.

Poco a poco la provincia romagnola si tinge di colori cinematografici che sembrano guardare a certi incubi sottili, affini a certi mondi lynchani come alle metamorfosi di Cronemberg: la stanza dove Bassano si rinchiude, lontano dal lavoro, si fa sempre più ristretta a ogni contatto con la realtà che lo turba; le pareti si stringono, polvere e calce la trasformano in una sorta di cripta. Le persone che incontra sono ricoperte di spaventose macchie di grasso nero e infetto che ne costellano prima la pelle per poi arrivare a invaderne intere porzioni di volto e corpo, come in un ritratto baconiano. E tutti sembrano cedere alla corruzione che li divora come fossero immersi in una nemesi pestilenziale che ne deturpa la carne, lo spirito, scossi da terremoti immaginari, suicidi improvvisi e una devastazione morale che nulla e nessuno esclude, quasi che l’intera comunità, una bestia ora famelica, ora sazia si trovasse sull’orlo di una dissoluzione che richiama certi incubi d’inizio Novecento come nelle poesie di Georg Trakl e nei quadri di George Grosz.

Il nano dice che a volte le persone lo temono ma in realtà non è lui che temono, è il nano nascosto dentro di loro, un essere simile all’uomo, col volto di scimmia. Quando questo essere viene in superficie, quando qualcosa di estraneo, che gli uomini non riconoscono né possono credere di possedere, affiora, allora hanno paura. Altrimenti, se ne vanno in giro spavaldi, a testa alta, ridicoli. Ecco il mio talento, far emergere in chi mi sta vicino il nano dentro di sé. Io sono per gli altri, senza che se ne accorgano, la loro stessa solitudine.

Continuo – lungo l’arco delle duecento pagine – è il riferimento meta letterario al romanzo Il nano dello svedese Pär Lagerkvist (Iperborea, 2017). Scritto nel 1944 e ambientato in una corte rinascimentale italiana. Un’opera che s’interroga sulla contemporaneità a partire dalle tragedie che narra: la guerra, gli avvelenamenti, i tradimenti, la peste. Come il nano di corte – una creatura «dal volto di scimmia che talvolta leva la testa, affiorando dai bassifondi dell’anima» che è il sosia del suo principe guardato con un cannocchiale capovolto – così Bassano diventa una cartina di tornasole della società che lo ospita e che non lo accoglie, perché nessuna accoglienza oggi appare possibile: dentro il mondo scolastico che pure dovrebbe essere il primo vero nucleo sociale al di fuori di quello familiare come fuori dai suoi edifici – in questo caso ancora a forma di M, di mussoliniana memoria e indifferente nostalgia – come nelle possibili strade che da quel mondo si dipartono. Autentico uomo del sottosuolo chiuso dentro una stanza che si fa, come in certo cinema espressionista tedesco, scenario e testimonianza della sua crescente angoscia, Bassano, come i piccoli disabili, non appare – né potrebbe mai – come una vittima ma come la stortura evidente, la scheggia solo apparentemente impazzita che, dentro i solchi del suo delirio, mostra, come in uno specchio, l’orrore della società – e della civiltà – che l’ha prodotto.  E, proprio come il nano, finisce con l’essere «un personaggio senza sviluppo che passa attraverso gli eventi e vede la realtà deformarsi» senza intaccarla «perché già deforme».

Le città che abitiamo sono scuole di morte, ricettacolo del frastuono e del tanfo, caos di edifici, dove ci ammassiamo a milioni. Stiamo entrando nella notte e ne usciremo soltanto ridotti a miseri resti, stiamo entrando in un futuro barbaro e dobbiamo armarci della sua barbarie, per adeguarci alla sua dismisura e resistere alla sua incoerenza.

Quando le belve arriveranno è un romanzo che colpisce e, in almeno un paio di punti, quasi allontana per la crudezza del mondo che racconta. Alfredo Palomba consegna nelle mani dei lettori un libro che vuole parlare del male e lo fa in maniera assoluta, senza sconti, cercando il cuore di tenebra di un’umanità allo sbando. La solitudine, la miseria, il risentimento, la sopraffazione, il fallimento in nuce di ogni possibile salvezza conducono Bassano e la sua voce narrante in un labirinto terribile del quale noi stessi non siamo in grado più di distinguere ciò che è reale da ciò che è il frutto esasperato di un’allucinazione. Finendo col delineare un personaggio che – su scala naturalmente minore – non può che richiamare certi grandi nauseati della letteratura: il Mersault di Camus, l’Antoine Roquentin di Sartre fino al Ferdinand Bardamu del Viaggio di Céline.

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