Le luci della centrale elettrica – Terra

Quest’anno Le luci della centrale elettrica, il progetto musicale dietro cui si cela Vasco Brondi, compie dieci anni. Tanti ne sono passati dalla prima demo autoprodotta nel 2007 cui avrebbe fatto seguito l’anno successivo Canzoni da spiaggia deturpata, il vero esordio, con la bellissima copertina firmata da Gipi. Quell’album, Targa Tenco per la Migliore Opera Prima, rivelava al panorama musicale italiano il talento di Vasco Brondi, ragazzo di ventiquattro anni di Ferrara che nell’artwork del disco correva tra le pozzanghere davanti allo sfondo del polo industriale Montedison, paesaggio urbano e luogo della memoria, da cui nasceva l’evocativo nome d’arte del suo progetto. Era in fondo già tutto lì, in quel nome e in quella corsa che si delineavano i due grandi tratti del suo approccio alla forma canzone: una sorta di urgenza espressiva da un lato e dall’altro una poetica capace di mescolare l’alto e il basso, ricca di suggestioni e di malinconia post adolescenziale. Quell’approccio era figlio dei CCCP e della terra emiliana ma tanto doveva, tra citazioni esplicite e influenze più nascoste, sia a Rino Gaetano, per una certa sfrontatezza e visione laterale, che a Francesco De Gregori, per la capacità di cogliere l’aspetto poetico nelle piccole cose. Sullo sfondo, forse troppo, la musica. Pochi accordi, grezzi, quasi un canovaccio messo lì a supporto delle parole, del testo, del bisogno di raccontare. Lo stesso approccio immediato si ritrovava nel secondo disco, Per ora noi la chiameremo felicità. Quattro anni dopo, invece, Costellazioni, nel 2014, grazie anche all’incontro con Federico Dragogna de I Ministri, rivoluzionava il suo approccio, spostandolo verso una direzione più musicale, con un maggiore spazio dato a musicisti con i quali aveva già collaborato, come Enrico Gabrielli e Rodrigo D’Erasmo. A trent’anni per Brondi è il tempo di crescere. Ma crescere, come ogni forma di passaggio, è sempre perdere qualcosa e trovare qualcos’altro. Se sul piano musicale l’evoluzione si faceva significativa, i testi cominciavano a perdere d’intensità, forse non come valore autonomo, ma nell’incontro con la musica che spiazzava rispetto allo stile più secco dei due album precedenti (che pure avevano dato adito proprio a critiche di eccessiva contiguità stilistica). Oggi con Terra, il nuovo disco uscito il 3 marzo per La Tempesta Dischi, il cerchio sembra chiudersi. Nel racconto di Vasco Brondi, cantore della provincia ferrarese, dello spaesamento prima ancora che del disagio giovanile, entra con forza dirompente il mondo, la realtà più vasta che bussa alle nostre porte e ha spesso il volto scavato e gli occhi, vivi e disperati a un tempo, dei migranti che solcano i nostri mari o camminano per chilometri fuggendo da guerra, violenza, povertà.

Come in The Dreamers di Bertolucci, i migranti, soprattutto quelli della rotta siriana, diventano simbolicamente il sasso lanciato contro una finestra per far entrare la Storia in una stanza che sa dello stantio di troppi pensieri masturbatori, costringendoci a scendere per strada per vedere il mondo di là dall’orizzonte che i nostri occhi pigri hanno disegnato per noi.

All’interno di questa cornice, ben rappresentata ancora una volta da una copertina bellissima (un’installazione di Ugo Rondinone nel deserto del Nevada, fotografata da Gianfranco Gorgoni), Vasco Brondi trova la quadra di una poetica più matura che non si snatura, naturalmente, ma riesce maggiormente a interagire in armonia con gli arrangiamenti più attenti e curati, che sanno di Mediterraneo e di mondo.

Possiamo illuderci ballare stando fermi / e fare caso a quando siamo felici

possiamo crescere ma ricordare per sempre / la tua piccola cicatrice a forma di fulmine

A forma di fulmine, il brano che apre il disco si pone come una specie di distacco e di commiato dal passato, dai ricordi che ognuno di noi si porta dietro, e, insieme, come apertura verso un approccio diverso alla vita, non più presa di petto e con rabbia ma con la capacità di accettare e di accettarsi.

Io sono nei detriti spaziali / nelle notizie da casa dei fronti siriani

[…] Sono pericoloso io che ti rassicuro / e hai visto all’improvviso è arrivato il futuro

Al secondo pezzo, Qui, l’incidere percussivo mediorientale allarga lo sguardo sul mondo globalizzato che entra prepotentemente anche dentro la musica che nel ritornello si tinge di muezzin distorti.

E dove c’era un minareto o un campanile / c’è un albero in fiore tra le rovine

ci siamo noi due accecati dal sole

Le tabla con delicati arpeggi di chitarra sono l’incipit di Coprifuoco che tanto deve a De Gregori (ancora una volta: qui in particolare, Gambadilegno a Parigi sembra comparire come un’ombra dietro l’andamento del pezzo). Piccoli squarci di una quotidianità sotto minaccia costante sono la porta di un viaggio nel tempo e dentro i paesi devastati dopo le guerre balcaniche. Ma anche lo spunto per una serie di domande sull’uomo capace di creare bellezza e orrore allo stesso tempo.

Nel profondo Veneto / dove il cielo è limpido

dove il sole come te è sempre pallido / dietro di te le macerie, le false speranze

Nel profondo Veneto, che ancora si appoggia a ritmi percussivi, stavolta africani, ci ricorda che esiste anche una migrazione interna all’Italia con il suo racconto di una ragazza che torna a casa, nel nord est così al centro delle vicende politiche e sociali degli ultimi trent’anni del nostro paese. La storia di una sconfitta e di una rinascita insieme, la consapevolezza di non volere ciò che si era pensato di desiderare e un ritorno alle origini: “Due bar, una farmacia, una chiesa, un negozio di alimentari / no, non c’è la stazione / non c’è niente da dire, niente da spiegare / niente da capire, c’è solo da esistere”. È la decrescita di Vasco Brondi, che dal sogno infranto delle zone industriali abbandonate sembra cercare, e trovare, un senso nella fuga dal neoliberismo imperante, dall’ossessione milanese del lavoro, del successo ad ogni costo.

Gli scafisti si orientano con le stelle / le nostre storie sono troppo belle

non cercare di capirle

Una voce straniera, gli arpeggi di chitarra in tre tempi: è il Waltz degli scafisti, pezzo centrale di Terra. È un brano che sarebbe potuto stare dentro Volume 8, il disco del 1975 che vide la collaborazione tra Fabrizio De André e Francesco De Gregori tanto è forte, nelle strofe, l’influenza del primo e, nel ritornello così spiazzante, quella del secondo. In un viaggio che attraversa il mondo intero e i continenti, tra familiarità ed estraneità, e sembra quasi sospeso nel tempo, irrompe la contemporaneità a raccontare che l’orrore non è qualcosa di distante nel tempo e nello spazio ma qualcosa che sta accadendo adesso e qui. “Senti le poesie / e un canto di sirene e di suonerie” e sembra quasi di sentirle, sospese tra mitologia e cronaca quotidiana, mentre sulla coda il violino disegna linee melodiche che dal profondo oscuro del mare sembrano arrampicarsi disperate per afferrare le stelle e mettersi in salvo.

I tuoi vent’anni / commenti feroci, polsi sempre appoggiati

alla fine sono passati abbastanza inosservati

La globalizzazione si sposta dietro allo schermo illuminato dalla luce di un computer. Iperconnessi è una critica tanto semplice quanto impietosa: “Cantami o diva dello sciame digitale / l’ironia sta diventando una piaga sociale / Cantami dell’immagine ideale / da qualche parte c’è ancora sporchissimo il reale”. Su un crescere di chitarra e batteria, la solitudine della propria stanza, la mancanza di reale connessione col mondo esterno, è disegnata tra richiami ai Massimo Volume e jingle radiofonici.

Chakra, tra citazioni (Grotowski, Lowen, Stromboli) e chitarre, è una delicata canzone d’amore che, con un ritornello strumentale tra percussioni e violino, ancora una volta si muove tra viaggi, luoghi diversi e sentimenti che trapelano fragili tra le pieghe della vita di tutti i giorni. Tra rammarico e rimpianti, scopriamo che racconta di una storia ormai finita, come ad alimentare un senso costante di precarietà, di passaggio, d’impossibilità di afferrare quella che un tempo chiamavamo felicità e ora non sappiamo più come chiamare.

In questa città tutto è illuminato / e fuori dalla stazione danze tribali esplosioni cartoline

un bambino appena nato / le sue mani sembrano stelle marine

Stelle Marine, il primo singolo, è una canzone bellissima in cui Brondi abbandona quasi il parlato per arrivare a cantare nel ritornello. Non ci sono più confini, tutto è sovrapposto e mescolato insieme come le acque dei mari e i venti del deserto. È l’Italia che si fa multiculturale contro tutto e tutti e confonde le facce e le carte di chi vorrebbe opporsi al cambiamento senza accorgersi che è già qui e già fa parte del nostro presente.

Moscerini, forse il brano più debole dell’album descrive un’umanità unita nella disperazione che ci accomuna come insetti: “Vivere felici, contenti e poveri / morire senza pensieri, con la febbre alta a Tangeri / vivere tracciabili, nei desideri, nei movimenti / morire come rondini, moscerini, tossicodipendenti”.

Queste sono notti senza pericoli / di nazioni con i debiti, internet senza limiti

di cieli superati, con viaggi disorganizzati / e tu che ti dimentichi che è una corsa a ostacoli

Viaggi disorganizzati è, infine, la chiusura del disco. Parte con il più classico voce e chitarra poi, poco a poco, come in un movimento cinematografico, un’orchestra balcanica si avvicina e, da un campo lungo, viene avanti in primo piano, a coprire quasi la voce come un’allegria rom a riempire le strade e le piazze di città di provincia che non sappiamo più occupare perché distratti dai noi stessi e da obiettivi illusori e irraggiungibili.

Terra prima ancora che un bellissimo disco finisce così con l’essere, per sua volontà o suo malgrado, quasi un disco necessario, adesso, qui, nel nostro paese. È un disco accogliente, nei temi e nei testi sicuramente, ma, anche e soprattutto, nella musica e negli arrangiamenti minimali ma perfetti per impreziosire le storie raccontate. È un Vasco Brondi riappacificato con il mondo e con se stesso, quello che, mentre il mondo brucia letteralmente, offre un racconto dal tono minore come a voler spegnere il rumore delle grida (quelle di dolore ma anche quelle, spesso isteriche, della politica come dei social) con una dolcezza inedita. Le luci della centrale elettrica con dieci anni di carriera oggi sono questo, un progetto capace di adattarsi, nonostante i limiti che conosciamo, alla materia che vuole raccontare. All’urgenza scarna degli esordi oggi fa da contraltare un disco quasi world che pesca, senza strafare e senza snaturarsi, tra i suoni della terra per raccontare la Terra. Trentacinque minuti in cui Vasco Brondi prova a esplorare altre strade, un modo nuovo di relazionarsi con la sua voce e le sue difficoltà; piacerà ad alcuni e scontenterà altri ma è sicuramente un tentativo cui è difficile non riconoscere uno dei doni più preziosi per un autore: la libertà.

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