Essere oggetti di un sogno sbagliato, proibito, come la giovane Lolita è preda del professore Humbert nel celeberrimo “Lolita” di Vladimir Nabokov: è più o meno quello che succede al popolo iraniano dopo la rivoluzione del 1979, con la nascita della Repubblica Islamica, vittima di una feroce repressione delle libertà individuali che colpisce maggiormente le donne, protagoniste di “Leggere Lolita a Teheran”, film del regista Eran Riklis, tratto dall’omonimo libro di Azar Nafisi, capolavoro della letteratura mondiale degli anni Duemila.
La pellicola, uscita lo scorso ottobre, è stata presentata al Festival del cinema di Roma e si è aggiudicata il premio del pubblico quello speciale della giuria.
Al centro delle vicende raccontate vi è la storia autobiografica di Nafisi (interpretata da Golshifteh Farhani) che, a pochi anni dalla rivoluzione del 1979, fa ritorno in patria insieme al marito Bijan (Arash Marandi): speranzosa riguardo al futuro del suo paese dopo la caduta dei Pahlavi, Nafisi insegnerà letteratura inglese all’università di Teheran. La realtà che l’attende, però, la farà presto ricredere: Nafisi dovrà scontrarsi con l’imposizione della Shari’a e alle contestazioni sempre più insistenti di alcuni suoi studenti rivoluzionari, contrari gli autori occidentali inseriti nel programma del corso, giudicati immorali, fino a organizzare un simil-processo a Gatsby, il protagonista dell’opera di Francis Scott Fitzgerald. Il clima sempre più oppressivo la porterà a licenziarsi, per poi riprendere a insegnare alla Free Islamic University e, poi, all’Università Allameh-Tabataba’i di Teheran nel pieno della guerra contro l’Iraq.
Amareggiata e sempre più delusa dal governo, lascerà gradualmente l’insegnamento per coltivare un sogno tanto ambizioso quanto pericoloso: un club di lettura privato con delle ex studentesse, con cui discutere di Vladimir Nabokov, Jane Austen, Henry James ed altri grandi autori della letteratura occidentale. Piano piano questi incontri sovversivi diventeranno un momento di profonda analisi letteraria e di interpretazione del presente attraverso le storie dei grandi autori. In un paese in preda al caos rivoluzionario, che impone forti restrizioni e un sistema di controllo repressivo nei confronti delle donne, le giovani protagoniste cercano di mantenersi ancorate alle proprie identità e convinzioni per non soccombere alla nuova realtà che le circonda.
“La grandezza di un romanzo sta nella sua capacità di metterci a disagio e nel farci dubitare di ciò che diamo per scontato”
Se l’immortale romanzo di Azar Nafisi pone al centro il ruolo della letteratura come scudo (e, allo stesso tempo, arma “bianca”) contro i totalitarismi, nella sua trasposizione cinematografica queste caratteristiche vengono marginalizzate: la pellicola di Riklis assume una dimensione più intimista e riporta per lo più l’attenzione del pubblico alla contemporaneità, al movimento Donna Vita Libertà originatosi dopo l’assassinio della giovane Mahsa Amini e che ha travalicato i confini dell’Iran.
Ma non è l’unica lacuna della “fatica” del regista di origini israeliane, autore di “Il giardino dei limoni” (2008) e “La sposa siriana” (2004): le stesse sfaccettature e complessità della società iraniana e del tentativo di rovesciare la monarchia Pahlavi per fondare una repubblica vengono appiattite e banalizzate, con la riduzione del punto di vista a uno scontro tra Occidente e Oriente, demonizzando tutto ciò che non è occidentale. La narrazione, infatti, è infarcita di passaggi retorici e didascalici, volti unicamente a polarizzare il racconto: il risultato è il ritratto dell’Iran unicamente dall’esterno, con uno sguardo puramente occidentale che rischia di rafforzare il sentimento antislamista più che diffuso in Italia ed Europa. Unico pregio del film? Invogliare chi lo guarda a leggere l’opera di Nafisi, lasciandosi conquistare dalla sua scrittura e da un racconto di Teheran e dell’Iran dall’interno.
Un cast 100% iraniano
Nonostante la regia e il taglio di “Leggere Lolita a Teheran” presentino numerose pecche, la visione è piacevole grazie al cast di attrici iraniane, a partire dalla protagonista Golshifteh Farahani, attrice e musicista iraniana naturalizzata francese che negli ultimi anni ha preso parte a “Pirati dei Caraibi – la vendetta di Salazar”, “Un divano a Tunisi” e “Due amici” di Louis Garrel: fin dai suoi esordi a Hollywood, agli sgoccioli degli anni Novanta, Farahani è invisa al regime iraniano, che non ha perso tempo a esiliarla.
Ma Farahani non è sola a reggere sulle proprie spalle l’intero film. Splende di luce purissima Zar Amir Ebrahimini (coregista e coprotagonista di Tatami, uscito lo scorso anno), che interpreta l’indomita Sanaz: l’attrice vive in Francia dagli anni Duemila, dopo essere fuggita dall’Iran a causa di uno scandalo di un sex tape amatoriale condiviso sul web a sua insaputa. Fatto che, in madre patria, le impedì di recitare per dieci anni. Nel 2022, a seguito dell’uccisione di Mahsa Amini, ha sostenuto apertamente il movimento Donna Vita Libertà.
Per non parlare di Mina Kavani – che dà vita al personaggio di Nassrin – la quale, nel 2013, dopo la sua interpretazione in “Red Rose” ha attirato l’attenzione dei media della Repubblica Islamica dell’Iran, altamente preoccupati per le sue scene di nudo. Da quel momento non ha più messo piede nella sua madre patria: è scappata in Francia, dove ha ottenuto lo status di rifugiata politica.
Nel cast diretto da Riklis, c’è anche chi ha scelto l’Italia per ricominciare a vivere: Isabella Nefar (nei panni di Yassi, la più giovane e propositiva delle appassionate lettrici), dopo aver trascorso l’infanzia e l’adolescenza in Iran, ha scelto prima di venire in Italia, Paese cui è sempre stata legata per motivi famigliari, per studiare all’accademia Paolo Grassi di Milano. Ora vive e lavora principalmente a Londra.
Queste attrici iraniane, tutte emigrate all’estero, sono il vero ponte tra l’Iran descritto da Nafisi e la società contemporanea: Farahani, Ebrahimini e le altre riescono a dar voce a un popolo che non ha smesso di sognare un Paese più giusto ed equo per i propri cittadini.