Leonardo G. Luccone ci racconta La casa mangia le parole

Leonardo G. Luccone ci aveva già aiutato a orientarci nel faticoso mondo della punteggiatura con Questione di virgole, uscito nel 2018 per Laterza. Ora lo trovate in libreria con il romanzo La casa mangia le parole, uscito alla fine dello scorso anno per Ponte Alle Grazie. Un libro che segna un importante prova narrativa per Luccone, che è inoltre fondatore dello studio editoriale e agenzia letteraria Oblique, e traduttore e curatore di volumi di scrittori come John Cheever e Fitzgerald – tra i padri ispiratori del ritmo narrativo del romanzo. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare qualcosa in più su La casa mangia le parole, ecco cosa ci ha detto.


Cominciamo con una domanda di carattere generale. Cosa ti ha spinto, dopo tanti anni nel mondo dell’editoria, immerso fino al collo nella letteratura italiana e straniera, a dedicarti a un progetto narrativo che fosse tutto tuo? Da cosa nasce la spinta per questo romanzo?

Non è che ho cominciato a scrivere da un giorno all’altro. Nel nostro lavoro si scrive molto, anzi potrei dire che si fa questo lavoro perché si ama lavorare con la scrittura. Ho sempre scritto, riempio quaderni di idee dai tempi del liceo. Fino a qualche anno fa non avevo alcun interesse nel pubblicare. Anche se siamo ancora all’inizio, devo dire che quest’esperienza non è positiva. C’è qualcosa di malato nel sistema.

La crisi matrimoniale dei De Stefano arriva in un momento inaspettato, quando la mareggiata che ha scosso per anni la barca del loro matrimonio parrebbe essersi calmata. Perché i problemi sono venuti a galla solo quando si sono calmate le acque?

I problemi della coppia vengono fuori quando Emanuele lascia la casa per andare a studiare a Londra. I De Stefano sono incapaci di riempire quel vuoto e ci precipitano dentro. Era una calma apparente, sospettosa. I De Stefano si erano rifugiati nel non dirsi più nulla di importante, non affrontavano più le questioni, galleggiavano in una quiete simbolica: facevano finta di niente. Quanto poteva durare?

I De Stefano vivono di apparenze. Arroccati nella figura di famiglia quasi perfetta che si sono costruiti, si tengono stretta questa messinscena a ogni costo. Il bisogno di “apparire” è un fatto atavico, intrinseco nell’animo umano, o ha più a che fare con il desiderio di normalità della borghesia a cui i due appartengono?

Credo non si accorgano più di tanto della messa in scena: banalmente perché non hanno tempo. È il meccanismo delle loro vite – uguale a quello di migliaia di persone – a essere avvelenato. Vivevano anestetizzati nella loro fretta. Da quando Emanuele si era reso indipendente con lo studio avevano più tempo per la loro noiosa voglia di vita.

Il non detto parrebbe avere un peso pure maggiore di ciò che i personaggi si dicono. Da cosa deriva questa difficoltà di comunicazione?

La difficoltà di comunicazione non c’entra con il non detto. Credo che rappresentare il non detto, accettare che un dialogo o una scena sia piena di cortocircuiti, di pause, di giri a vuoto o di battute non relazionate all’immediato, sia un modo onesto per rappresentare la realtà. Sulle difficoltà dei De Stefano non c’è molto da dire: preferiscono la dimensione solista a quella di coppia.

Leonardo G. Luccone

Come mai hai deciso di far soffrire Emanuele di dislessia? Ha più a che fare con il non poter godere della lettura e della letteratura o con un’incapacità di comprensione, che può anche sfociare nell’incomunicabilità di cui abbiamo appena parlato e che da questa può nascere?

È un disturbo dell’apprendimento che conosco bene. Da adulto ho capito di averne sofferto e quindi ho ricostruito quello che mi è successo. Scrivere di Emanuele mi ha aiutato a capire, a un certo punto tutto mi è sembrato lampante: sia le difficoltà che avevo, sia il modo con cui ho compensato. Nel libro faccio inventare al papà un metodo per migliorare la lettura, nella realtà quel metodo l’ho faticosamente messo a punto da solo.

Nel tuo romanzo il personaggio di Moses è tra i più interessanti. Sfaccettato, complesso e intrigante, è un ingegnere ambientale e allo stesso tempo uno scrittore. Hai detto di esserti ispirato per questo personaggio a un saggista realmente esistito, qual è il motivo di questa incursione della realtà nella finzione?

Il libro non è autobiografico ed è praticamente tutto vero: ogni personaggio, ogni fatto; la finzione è ridotta al minimo. È solo una chiave per capire la realtà. A me interessa la dimensione saggistica della narrativa. Per scrivere di Moses avevo bisogno di Moses. Nella realtà è andata che tanti anni fa ho conosciuto questo ambientalista pazzo e stravagante; abbiamo condiviso un sacco di cose. Quando mi ha mostrato il suo giardino segreto ho capito che era lui l’interprete giusto. Gli ho chiesto il permesso e lui me l’ha accordato. Mi ha donato una gran mole di scritti. Il libro (Questo mondo che respira) l’avevo divorato anni fa. Non ha voluto leggere una riga fino alla pubblicazione.

La Roma di cui narri è una Capitale alla deriva che sta attraversando il proprio crepuscolo e che lo fa in modo indegno. In un certo senso questa marcescenza mi ha ricordato, come una sorta di collegamento, il senso di decadimento che si può rintracciare nella vita matrimoniale dei De Stefano. È un parallelo?

No. Roma va da sé. Lei non sembra accorgersi del disfacimento della sua città, non le interessa. De Stefano dovrebbe essere un agente del cambiamento, ma è troppo invischiato nel sistema per coglierne le criticità, almeno per gran parte del romanzo.

La crisi ambientale ha un ruolo abbastanza importante nel romanzo. Perché credi che ci sia questo rifiuto diffuso, largamente condiviso, di affrontare un problema tanto grave e che ci riguarda tutti?

Perché siamo egoisti e chiusi nel nostro perimetro. Chi in una dimensione individuale, chi in una manciata di rapporti che raramente vanno al di là del quartiere, chi poco di più. Le nostre vite finiscono nel buco nero del cellulare; la coltivazione dei rapporti è a un minimo storico. Viviamo le crisi personali come se fossero crisi di sistema. Abbiamo perso la responsabilità nel confronti del prossimo, e non è una questione di religione.

Hai in programma di scrivere ancora? Dei progetti in cantiere? E, soprattutto, questo romanzo ha cambiato qualcosa nel tuo modo di porti alla letteratura?

Come dicevo all’inizio scrivo sempre – il discrimine è pubblicare o meno. Mi interessa molto la rappresentazione, la lettura recitata: ho in mente una decina di progetti di piccoli spettacoli da realizzarsi in librerie o a teatro.

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