L’indie ha vinto, ma (forse) non ne siamo così felici

Forse era questione di tempo prima che ci trovassimo a essere anche noi parte del mondo morettiano, di quel tipo che anche quando vince è triste, perché certe vittorie è meglio sognarle che ritrovarsele davanti. Troppe responsabilità e probabilmente nemmeno quelle necessarie, che costringono necessariamente a distaccarsi dalla gran parte che segue quel pezzo di indie, preso nell’accezione più generalista del termine (come tanti altri ne arriveranno) per evitare il duro confronto che si aprirebbe su quello che può appartenergli o meno. Questa vittoria menomata, se così vogliamo definirla, è a tratti una lotta fratricida, fra i dur et pur, che ne hanno visti i momenti più bui e solo all’accostarsi a certi nomi (Calcutta, Thegiornalisti, Cani) gli arrivano i brividi, e l’altra quella più giovane e fresca (ma che sa un po’ di stantio se si recuperano certi dischi dalla collezione dei propri genitori) che con gli stessi nomi si scaldano. E allora ci dev’essere qualcosa di vero, e lo dimostra la dodicesima edizione del Mi Ami e la copertina di un noto punto di riferimento dell’ambiente, che i limiti che qualcuno si era dato sono stati inevitabilmente superati, e forse non c’è più speranza per ritornare indietro. Le previsioni sul futuro trovano il tempo che hanno, e se la scaramanzia ci porta a dire che non durerà, dimenticare quello che sta succedendo nel presente sarebbe già abbastanza pericoloso di suo se non ci fosse un punto imparziale, perché le strade degli ambienti alternativi vanno sempre parallele, e se non c’è più un dialogo e una contaminazione il discorso diventa sterile e ripetitivo. Lo splendore dopo la decadenza, se non proprio l’ultimo acuto di un cammino in discesa che trova un apice temporaneo, per qualcuno il peggiore, per poi tornare nelle fogne dove ha sempre regnato. Ma questo processo è più che complesso, e le sue conseguenze non sono del tutto prevedibili.

 

Il venerdì del Mi Ami 2016, ore 22.45, durante il concerto de I Cani. (Credits: Mc Troizz)

 

Non contano le file per entrare, come probabilmente non si vedevano da tempo, ma le persone che c’erano dentro, in attesa di ascoltare l’ultimo disco di Contessa e, ancora più probabilmente, quello di Calcutta. Sono piccole sfumature che costringono il discorso a superarne uno di gusto e di influenze passate. Come, ad esempio, alcune cose devono essere prese più in considerazione di altre per testimoniarne la portata, del tipo che è più rilevante che le persone preghino Tommaso Paradiso di eseguire pezzi del suo repertorio piuttosto che quando suona Bollicine assomigli più al primo Grignani che a Vasco. O che come ai grandi concerti se ne abbandoni un altro per mettersi il più davanti possibile, anche quando gran parte del suonato è fatto solo di cori da stadio. Per qualcuno che ancora ricorda gli adorati silenzi e applausi a frequenze che non sono comprensibili e ti tengono immobile in una stanza fra poche decine di persone. Perché, e fa male dirlo, a un certo punto quello che viviamo sta superando le coordinate su cui basavamo il nostro giudizio in passato. Viviamo tempi complicati che cercano di rendersi più facili, e le sonorità che sembrano parlare del quotidiano sembrano completare in maniera più diretta quelle che, ancora, si spaccano di studio per uscire perfette. In fondo è sempre stato così, solo che gli ambienti in cui ascoltare musica sconosciuta erano una piccola oasi per i pochi dispersi, spesso contaminati dall’estero, che cercavano qualcosa di più. Agli altri si lasciava il resto, ben contenti di non farne parte. Se Contessa non è più quello che cantava mascherandosi con una busta di carta è forse perché non c’è più bisogno di nascondersi dalle critiche, ed è anche bello così da un certo punto di vista (lo stesso che spaventa ancora qualcuno dalla sua prima uscita from the cameretta), ma lo è probabilmente perché la fiducia che un ambiente prima non gli dava proviene ora dal pubblico che lo segue, che gli permette di incollare adesivi di sold out e replicare per tre sere lo stesso spettacolo a Bologna. Sono numeri, ormai, e la questione diventa drammatica quando si apre all’oggettività. Ne parlavo con qualcuno al Magnolia, che in realtà vedere così tante persone estranee, così poco vicine a noi, potessero riempire il concerto di Motta, che pure non ha fatto un album estemporaneo, ma che piano piano sta coinvolgendo un numero di persone molto diverse da quelle che lo seguivano con i Criminal Jokers, sia effettivamente drammatico. Mondi diversi che collidono, ma non per questo si tratta di accostamenti ad hoc per ciò che tira di più. Se prendiamo il mainstream di Gaetano fondamentalmente come una risposta a un ambiente da sempre troppo intento a delineare ciò che può e deve essere, piuttosto che essere e basta, da una decina di anni a questa parte, deve far riflettere.

C’era un’affluenza così densa quel venerdì milanese. Di persone che oscillavano fra palchi diversi, lasciandosi andare, che l’unica cosa che ti teneva attaccato al tuo paese era la lingua con cui si esprimevano. Da un lato questa situazione da festival, dall’altro il fatto che si trattava quasi di una riunione messianica che finalmente si apriva ai nuovi adepti. Che fossero le parole sbagliate, le chitarre nemmeno troppo accordate e i ritmi orecchiabili fino alla nausea importava poco a chi c’era, e se le nostre condizoni erano precarie è stato anche per quello. Il loro grado di divertimento era pari a quello di chi stava suonando, è quello il legame che pare essersi perso con altri, dai palchi sempre più alti e un coinvolgimento sempre minore e diffidente, come solo a chi è dovuta una reverenza semi-mitica si deve. Se il sonno dell’indie genera mostri è per una conseguenza piuttosto diretta di un ambiente che ha provato a strizzare l’occhio a quel mondo che proprio ora, come mai prima, si appresta a combattere, proprio perché viene da dentro. Nella guerra ci si stringe sempre più vicini, e magari sarà proprio questo rigetto delle radio che passano i tuoi brani a creare qualcosa di diverso. Basti pensare a certi commenti e chiusure, la fase è delicata, e non necessariamente porterà alla fine di tutto. Tutto questo prevede numerose implicazioni fondamentali, che complicano la definizione stessa del termine indie, ma portano anche una necessità di un rinnovamento che è finito per ripercorrere strade già appartenenti a tempi diversi, ma forse l’unico ancora in grado di integrarsi così a fondo con le persone da non lasciarle sole, come tanti altri hanno fatto, sul declino e la nostra insofferenza.

 

 

La componente che passa per radio è solo la parte con più riflettori addosso, perché ce ne sono tante altre che sono da ritrovare proprio dentro chi prima ne era parte fondamentale. Quei generi che hanno a tal punto stravolto le nostre idee da essere diventate parte di un fardello difficilmente collocabile nello scatolone delle passioni che non torneranno più. E capita quindi che chi sputava sui giovani ora si ritrovi, non necessariamente per logiche di mercato, a cercare di farseli amici. Le generazioni cambiano così come il modo di usufruire e vivere la musica, e a nomi che prima ti portavano a casa ora si sono sostituiti residence social di altri, perché anche su quel piano il confronto si è fatto quasi spietato. Non bastano più le chiese e gli adepti, ormai impossibili da distaccare dal loro fanatismo a tratti violento, da quando non ci sono più movimenti ma solo accostamenti di aspetti simili. Perché è questo che siamo ormai, basta un tratto che conosciamo per rendercelo amico ed è una questione quasi ideologica, sul fatto che se non sai più chi sono i nemici non puoi essere sicuro nemmeno sui tuoi alleati. Allora diventa quasi naturale essere cresciuti con l’hip hop ma trovarsi a festival indie, o viceversa, dai locali stellati ai club provinciali. Basta dirigere lo sguardo per un attimo alla scena elettronica, proprio dove questa mescolanza si è saldata alla sua struttura più profonda, rendendola particolare e variegata, fino a costituirsi come una novità assoluta nel nostro paese.

È proprio questo il sentimento della vittoria amara. Dopo anni a criticarsi a vicenda, a bloccare le strade e a sentirsi diversi, perché questo eravamo, per l’appartenenza a un ambiente che esiste ancora, ma sembra aver perso la sua vocazione principale, ed è diventato di tutti. Nonostante i suoi limiti, l’abbiamo sempre voluto chiamare casa, ma ora che è diventato anche di altri come abbiamo sempre voluto ci siamo ritrovati a essere noi i primi a volerlo chiudere a quello che sta succedendo. Tenerselo per sé, lasciare quelle situazioni ad altri, perché noi ne avevamo di migliori, e ora che si sono così consumate e stravolte non sembrano appartenerci più. Ma siamo noi a rimanere indietro, e a perdere parte di quello che abbiamo contribuito a costruire. Una vittoria che è nostra, e non sappiamo quanto durerà, ma che non ci fa dormire la notte. In questo nuovo mondo, forse nessuno si sta davvero salvando.

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