Lion – La strada verso casa (nell’era Google)


Where are you going?                                            I have to go home, I am lost.


Vi ricordate l’ultima volta in cui, da piccoli, vi siete persi in un posto – una delle peggiori sensazioni che si possa provare nella vita – e avete iniziato a chiamare la mamma e il papà, senza ricevere risposta? Fortunatamente, nella quasi totalità dei casi – mi lascio sempre un margine di eccezioni tra i lettori – li avete ritrovati; può essere un’esperienza paralizzante e talvolta traumatica, specialmente se si ha 5 anni e ci si trova a 1600 chilometri di distanza da casa.

Ganesh Talai, sobborgo di Khandwa, 1986. Il piccolo Saroo Brierley finisce su un treno diretto a Calcutta, dopo aver perso il fratello Guddu alla stazione. Vagherà per circa tre settimane nella metropoli da 15 milioni di abitanti, prima di finire in un orfanotrofio ed essere infine adottato da una famiglia di Hobart (Tasmania). Venticinque anni dopo si rimette alla ricerca delle sue origini, aiutato anche dalle opportunità delle nuove tecnologie.
È la storia raccontata nel film Lion – la strada verso casa, opera prima alla regia cinematografica per Garth Davis, meglio noto agli addetti ai lavori come pubblicitario di origine australiana (questo spot ha vinto il Leone d’Oro a Cannes). Non male come debutto, se si considera che il film è stato presentato in anteprima al Toronto International Film Festival nel 2016, aggiudicandosi il secondo posto al Premio del Pubblico.

Occorre innanzitutto specificare l’origine delle diverse case di produzione che hanno finanziato il film: See-Saw Films (anglo-australiana, Il Discorso del Re, Macbeth, tra i nomi più famosi), Sunstar Entertainment (australiana, con focus principalmente “locale”), Screen Australia (finanziata direttamente dal governo di Canberra) e last but not least, The Weinstein Company (statunitense, Bastardi senza gloria, Gomorra – la serie e Carol all’attivo). Con una tale copertura, quasi hollywoodiana, ci si aspetterebbe quasi un’americanata (una di quelle pellicole con un protagonista che realizza il suo sogno) e forse un po’ lo è: ma solo nella trama.
L’attenzione di Davis si presta ad ogni particolare: dalle riprese in esterna, sulle vaste miniere di carbone a cielo aperto – vera e propria piaga sociale e ambientale, intorno alle quali nascono le baraccopoli e nelle quali il lavoro minorile è reale – alle sponde del fiume Hooghly, affluente del Gange, alla sensazione dispersiva tipica delle stazioni indiane (Il treno per Darjeeling docet) resa bene da inquadrature ad alta densità di soggetti e primi piani. Da notare anche la recitazione in lingua originale, sia in hindi che bengali, le due più diffuse del paese.


Do you understand Hindi?                                    Yes. 


Il nostro Oliver Twist indiano viene interpretato da Sunny Pawar, trovato da Davis dopo aver girato per svariate scuole dell’India e dopo aver scrutinato più di 2 mila bambini; il regista ha dichiarato di aver “sentito” che era quello giusto, benché il piccolo attore neppure sapesse parlare inglese all’inizio delle riprese. Ma a confermare la sua bravura, una scena (tra molte): dopo aver trovato un cucchiaio nella spazzatura, Saroo osserva dalla vetrina di un ristorante un ragazzo, curato e ben vestito, mentre mangia a modo, e lì inizia ad imitarlo. Il giovane, incuriosito, si avvicina e scopre che il ragazzino non parla hindi (la lingua ufficiale), non sa il nome della madre né del villaggio da cui proviene. Un nessuno tra milioni, nella megalopoli del Bengala: laddove storie di bambini scomparsi, rapiti e venduti a fette sul mercato nero degli organi, se ne sentono e vedono tutti i giorni.


La versione adulta di Saroo invece è Dev Patel, nato a Londra, originario di Nairobi ma con origini, chiaramente indiane, da Gurajat: un ruolo a pennello per lui. Tant’è che ormai interpreta solo quello: da Skins, a The Newsroom, fino all’ormai classico The Millionaire e Marigold Hotel, sempre il giovane nerd dal fascino multietnico (proprio quello che piace nell’America di Trump). E lui, sia chiaro, è bravo in quello che fa: è stato infatti nominato come Migliore Attore non protagonista in questo film, agli Academy di questo anno. Sa calibrare bene le emozioni di un giovane cresciuto e inserito nel mondo occidentale a tutti gli effetti, ma allo stesso tempo portatore di una cultura troppo elaborata e predominante per non renderla presente (e visibile) nella sua vita. Come quando si ritrova ad una festa di amici indiani e assaggia lo Jalebi, dolce tipico che gli ricorda automaticamente la sua infanzia; il profumo e il colore rosso della pastella fritta ricoperta di sciroppo sono come le madeleine per Proust ne À la recherche du temps perdu. D’altronde, <<ri-cordare è ri-creare>>.

Sullo sfondo non poteva mancare una forte presenza femminile (no, non è una contraddizione): c’è Rooney Mara, fidanzata di Saroo, nella sua veste più “pulita” – come dimenticare Lisbeth Salander in Uomini che odiano le donne – e Nicole Kidman, madrina di Saroo e, in generale, del cinema dalla terra dei canguri.

C’è spazio per i dettagli anche nella musica: candidata come Migliore colonna sonora, porta la firma di Dustin O’Halloran e Hauscka, e il contributo di Sia con il brano Never Give Up

Lion – la strada verso casa è imperdibile per due motivi: innanzitutto ci pone di fronte ad una riflessione, che fortunatamente poi diventa una rassicurazione; nel meraviglioso mondo iper-connesso e globalizzato in cui viviamo – passato alla lente intrusiva di Google Earth – oggi è possibile ritrovare un luogo o una persona di venticinque anni fa, senza ricordarne il nome o averci avuto nessun tipo di contatto (SPOILER ALERT: la scena “Carramba che Sorpresa!” ci sta e commuove lo stesso). Secondo, che i miracoli esistono (almeno in India) perché questa è una storia vera.

 

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