Lo street food è cultura, intervista a Chef Rubio

Chef Rubio, nome d’arte di Gabriele Rubini, è più di un cuoco che finisce in televisione. Il suo programma, Unti & Bisunti, giunto alla seconda edizione è un viaggio dentro ai sapori sotterranei delle città italiane, lontano dai ristoranti stellati di Masterchef e dalle cucine belle e colorate di Cotto e Mangiato. È la ricerca e l’esplosione di gusto dello street food fatto per essere mangiato con le mani per strada. Abbiamo raggiunto Chef Rubio per fare due chiacchiere sul programma e sulla portata culturale del progetto, un’occasione per approfondire il percorso di un uomo che, abbandonando certezze e piagnistei, sta portando in giro l’idea di un’Italia meno snob e più fiera delle sue radici, partendo da quello che è uno dei suoi punti forti: il cibo fatto per le persone. L’appuntamento è ogni lunedì sera alle 22 su Dmax, canale 52 del digitale terrestre, un motivo per vedersi la televisione, per una volta.


Partiamo dall’inizio, dal tempo in cui Unti & Bisunti non era più di una fantasia. A cosa risale la passione di Chef Rubio per la cucina?

In Italia si entra in contatto con la cucina sin da subito, io non sono stato da meno. È stato in casa il mio primo contatto con i profumi e gli assaggi della mia terra, nella vita di tutti i giorni. Poi ci sono stati i viaggi in Italia con la famiglia che mi hanno dato sempre qualcosa. Sono fuori di casa da quando avevo 18 anni e ho avuto occasione di sperimentare e di entrare in contatto con altre persone. Le trasferte per l’attività sportiva mi hanno dato qualcosa in questi termini. Giocando spesso fuori dalla mia città il processo si è accelerato e mi ha permesso di incontrare persone che facevano le cose che amavano con grande passione. Una volta finita la mia carriera sportiva [a causa di un infortunio, NdR] mi sono fatto la classica domanda su cosa mi sarebbe piaciuto fare al mondo e cucinare è stato un passaggio naturale. Non mi è mai pesato farlo e mi è sempre piaciuto ed è per questo che ora siamo, qui, a parlarne.

Prima, però, ci sono stati i viaggi in giro per il mondo. Quanto è stato importante per te lasciare l’Italia?

Viaggiare è fondamentale, anche senza bisogno di andare fino in Australia dove sono finito io. Per scoprire qualcosa di nuovo basta anche solo andare via in giornata nelle zone di tutta Italia. Già quello è un viaggio se si parte col gusto di scoprire qualcosa di nuovo.

Viviamo in un’epoca in cui la gente se ne va sempre di più e, spesso, non torna mai. Tu sei ritornato.

Non biasimo assolutamente chi prende il suo zaino e se ne va per cercare fortuna altrove e magari decide di non tornare, è una scelta comprensibile rispetto al mondo che stiamo vivendo. Io ho fatto un processo inverso perché ho scelto di provare ad affermarmi qui in Italia dove, nel mio campo, è molto più difficile rispetto all’estero. Sentivo che se avessi abbandonato il posto da cui provenivo non lo avrei onorato o non gli avrei dato la dovuta importanza. È bello fare esperienze fuori ma è anche bello riscoprire le radici da cui proveniamo. Non ha più senso spacciarci per gli italiani all’estero che finiscono per denigrare anche quello che c’è in Italia di buono e di bello. È troppo facile, bisogna rimanerci e combattere e, poi, se proprio non va, affrontare le proprie decisioni.

L’esperienza dei viaggi ti ha segnato profondamente, dal punto di vista lavorativo ma anche in quello interiore, fino a finire sulla pelle.

Sì, anche se molti di quei tatuaggi sono stati il residuo di un periodo abbastanza difficile che stavo attraversando. Sono stati importanti anche per quando ero all’estero, sono cose che mi porto addosso ogni giorno e che mi hanno sempre accompagnato, arricchendosi delle mie esperienze di vita che sono state indispensabili per la mia formazione. Dei compagni di viaggio da cui non ti puoi staccare.

Tutti ti chiedono com’è cambiata la tua vita dopo aver sfondato lo schermo. Noi no. Cosa stai imparando da questa esperienza?

[Ride] Sto scoprendo quanto è bello viaggiare da soli e quanto è diverso farlo con una troupe, quanto è bello apprezzare le piccole cose che diamo per scontate e che, invece, non lo sono. Sto imparando un nuovo mestiere perché alla fine stare davanti alla camera richiede certe cose che prima non sapevo, e stai con persone che non parlano di cucina ma di suono o di ottiche. È una crescita totale che ritengo molto interessante. Sto imparando, parallelamente, quanto alcune cose per cui ti spendi e per cui fai fatica, spesso, finiscono poi per non ricevere neanche un soldo o un riconoscimento, perché questa è la macchina bella e fatta della televisione, e non solo per me.

Il programma si muove in tutta Italia, dai paesini più sconosciuti alle grandi città. Portando con sé un forte messaggio culturale.

Assolutamente sì. Non mi muoverei se non ci fosse un messaggio culturale, neanche per le mie attività personali. Senza uno scambio e una contaminazione di generi non vale la pena di fare niente. Tutto è fatto per un arricchimento, se lo faccio è per condividere, magari con persone che sono annichilite da questi tempi moderni che, certo, non ci spronano ad andare oltre. Non so se il mio obiettivo sarà raggiunto ma magari qualcuno dirà: “Voglio andare pure io a toccare con mano dove è stato con la troupe”. È gratificante perché a me certi gesti sono stati insegnati da qualcuno e, da lì, provengono le mie scelte che spero a qualcun altro possano dare una parte di quello che hanno dato a me.

In concomitanza con l’inizio della seconda serie è uscito anche il libro che racconta le tue avventure,un passaggio naturale per poter rappresentare la tua esperienza a 360 gradi?

Diciamo che il libro che mi piacerebbe scrivere non è solo quello che è uscito adesso, che parla più dell’esperienza del programma televisivo che non della mia esperienza interiore e di quello che sentivo. Quello che abbiamo vissuto non è stato tutto mostrato in camera, ovviamente, tutte le esperienze meriterebbero un altro approfondimento. È stato comunque un primo passo, una visione che avevo e che ho delle dinamiche che abbiamo affrontato. Mi piacerebbe scrivere qualcosa di più interiore, che racconti davvero tutto e quello che ho vissuto. Questo libro non è stato soltanto mio ma anche di chi l’ha scritto insieme a me, per telefono, in treno, via mail e sui luoghi che abbiamo visitato, un libro un po’ di tutti. Quello che ne è uscito è l’esperienza che abbiamo avuto, attenendoci, alla fine, a quello che ci è successo, lasciando meno spazio alle considerazioni personali che, come ti ho detto, spero di poter affrontare in un libro più “mio”.

Unti & Bisunti si pone volontariamente contro le esperienze televisive a cui siamo abituati, da un lato le mani e la cucina per strada, dall’altra la ricercatezza e la professionilità di Masterchef.

Sì assolutamente. Il programma si pone come punto di rottura dal primo minuto. La volontà è di mostrare un’altra idea di cucina italiana, contro le dinamiche stressanti e, spesso, false di Masterchef e altri programmi. La cucina è totale e quindi ci sono diversi stili per viverla. Non c’è solo la cucina elevata ma anche quella che si può fare ovunque e a cui non siamo abituati. La condizione fondamentale è che ci sia rispetto per la materia prima, imprescindibile per parlare di cucina. La cucina non è uno sport e, lo street food, era uno di quei capitoli da aprire e da portare in televisione, almeno come elemento di disturbo per far presente che non c’è solo il piatto raffinato o quello impiattato bene, ma che si può mangiare con le mani ed è anche un po’ il suo bello.

La seconda stagione ha una ricerca musicale più particolare rispetto alla prima serie. Cosa ascolta in questo momento Chef Rubio?

In questo momento stavo ascoltando Le luci della centrale elettrica ma, in generale, ascolto di tutto. La musica è fondamentale e, quindi, sono contento del lavoro che fanno i ragazzi nella ricerca della musica giusta. Sono contento tu te ne sia reso conto, anche perché una cucina con una radio spenta è un posto invivibile, tra il rumore e gli odori di fritto e del vapore non resisterei. Il rapporto fra musica e cucina è fondamentale, è impossibile dividerle, almeno per me.

I tatuaggi, i viaggi con lo zaino sulle spalle, Le luci della centrale elettrica e i libri. Fino ad arrivare all’esperienza di Chef Rubio: Food fighter, fumetto edito da Star Comics.

Sì, in realtà mi è stato proposto e io ho soltanto accettato. Ho sempre letto libri e fumetti. Personaggi come Dylan Dog sono stati parte integrante della mia crescita, e ne ho letti di qualunque genere, da Ken il guerriero a Ranma ½. Sono sempre stato interessato a quel tipo di arte come mezzo di comunicazione culturale, falsamente riservata soltanto ai nerd o ai bambini. È stato importante perché i ragazzi [Diego Cajelli ed Enza Fontana, NdR] sono riusciti a capire il messaggio che volevo portare già nel programma. Il Rubio del fumetto va contro una multinazionale che poi non è molto distante da quello contro cui Unti & Bisunti cerca di combattere. Sono gli stessi imprenditori senza scrupoli, uomini insospettabili di tutti i giorni che, seguendo le mode del momento, tra cui i vari Eatitaly e soci, mettono il profitto a discapito della tutela dei prodotti, danneggiando tutti.

Chef Rubio se n’è andato dall’Italia per poi tornare. Viviamo in un momento critico, in cui andarsene è più di una possibilità. Cosa c’è di importante nella tua esperienza per gli altri?

Ti dico, sinceramente, che quando ero ragazzino e pieno di ormoni non facevo altro che guardare all’estero come a una terra promessa e soluzione della mia situazione in Italia. Me ne sono andato lontano per tanto tempo ma, una volta fuori, mi sono accorto di quanto sia bello in realtà il nostro paese e, quindi, la mia posizione è abbastanza chiara. Questo è un paese che sta andando sempre più sul lastrico e siamo un popolo rinunciatario. Non si investe più nella cultura e nelle scuole, trovo molto difficile credere che, se non si farà qualcosa per cambiare le carte in tavola, la situazione potrà migliorare da sola. Dico ai ragazzi demotivati che li capisco ma è ora di rimboccarsi le maniche per cambiare, che i potenti possono essere surclassati in maniera pacifica o anche rivoluzionaria, se necessario. In Francia mentre facevano le rivoluzioni e tagliavano l’esercito, noi stavamo tutto il giorno qua a lamentarci. Se vogliamo che qualcosa migliori dobbiamo farlo noi nel nostro piccolo. Se ognuno si inizia a preoccupare non solo di se stesso sono sicuro che da questo momento di crisi, non solo economica ma soprattutto culturale, si potrà uscire. Io, per quanto poco, ci sto provando, abbiamo le energie, basta metterle in circolo.

Questo cambiamento passa, in qualche modo, anche dal cibo.

Assolutamente. Il cibo è il primo mezzo per entrare in contatto con la cultura. Quando sei all’estero cos’è la prima cosa che fai? Mangi e, quindi, scopri un popolo al primo boccone. Noi abbiamo milioni e milioni di prodotti, di situazioni diverse in paesini e villaggi che se solo ci interessassimo un po’ di più cambieremmo completamente visione del mondo.

Chef Rubio è testimonial della campagna Dynamo Camp Onlus, (qui il link della raccolta fondi), non solo televisione e libri.

È una cosa che divulgo molto volentieri e sarebbe bello che tanti altri, anche in modo anonimo, facessero più cose verso le persone più sfortunate di noi. Spesso ci troviamo a pensarne soltanto se ci capitano, il mio è un tentativo per dargli visibilità come posso. Quello che faccio è solo un simbolo, perché partecipando all’asta ti prendi la mia casacca e il libro. È simbolico, e ci sarebbe molto altro da fare, ma che, spero, aiuterà qualcuno.

Grazie Chef

Un abbraccio!

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