Storia di due misantropi: “L’occhio della montagna”, Sara Baume

Ogni dieci anni la rivista Granta Magazine pubblica i nomi più promettenti della nuova letteratura britannica under 40; nel numero 163 del 2023, Best of Young British Novelists, tra i selezionati dalla giuria c’è Sara Baume, scrittrice con tre romanzi all’attivo. Nel 2015 il primo, “fiore frutto foglia fango”, vincitore del Premio Rooney per la letteratura irlandese, in Italia pubblicato l’anno successivo da NN editore nella traduzione di Ada Arduini. Nel 2022 arriva, invece, sempre per NN editore e sempre tradotto da Ada Arduini, il terzo romanzo: “L’occhio della montagna”. Una conferma dei temi portanti della poetica dell’autrice, un ritorno alla costa irlandese, ambientazione perfetta delle sue storie, nonché un inno alla solitudine, questa volta consapevole, e alla misantropia dolce.

“fiore frutto foglia fango” era stato, effettivamente, l’esordio perfetto, la vicenda di una coppia di misantropi: un uomo di quasi sessant’anni che vive ai margini della sua comunità e un cane malandato, con un occhio solo, che entra nella sua vita per caso a scardinare la solitudine imposta. Due anime complementari e la maniera vivida ed eccezionale con cui Baume spiega la loro congiunzione astrale e la prepotenza di quell’istinto ad amare tantissimo un cane, fino quasi ad assimilarne gioia e tristezza nel «freddo che fa marcire lo spirito» di una casa trascurata e marcescente.

Sara Baume

Ne “L’occhio della montagna”, il terzo romanzo di Baume, il secondo pubblicato in Italia, ci sono altre due anime affini e il loro viaggio nella solitudine. Bell e Sigh, una donna e un uomo di età indefinita, conosciutisi «ai piedi di un monte basso», vanno a vivere insieme per costruire «un unico futuro», quello in comune. «Lei si arrabbiava in un lampo, mentre lui aveva una capacità di rimpianto abissale e straziante». Occupano un’antica casa nella campagna irlandese poco lontana dal mare e sotto l’occhio vigile della montagna. I due intraprendono una vita lontana da famiglie, amici e “civiltà”, due esistenze senza particolari traumi le loro, ci tiene a specificare Baume, ma trascurati dalle dinamiche delle grandi famiglie. Il risultato è una coppia di «solitari con un pizzico di misantropia» che provano a vivere insieme e a mescolare le loro solitudini e ciò che ne verrà fuori sarà una vita sola, una confusione di confini personali e la nascita di un unico mondo che ha senso solo per loro due e i loro cani. Per fortuna. Ecco allora, dopo l’ambientazione irlandese, il ritorno delle presenze a quattro zampe, Pip «una mezza levriero, mastodontica e tonta» e Voss un terrier «arzillo e infido»; entrambi sono il marchio di fabbrica di Baume, che già aveva esplorato il rapporto uomo-cane nel primo romanzo. Questa volta non sono protagonisti, ma un confortante elemento di sollievo dalla storia, come dice Baume in un’intervista, per non annaspare nel mare di solitudine a cui espone chi legge. Ci si riflette nella solitudine raccontata nella sua narrativa: probabilmente esiste chi la trova confortante, un obiettivo a cui aspirare, altri, con più probabilità, dovranno centellinarla per non esporsi troppo alle proprie paure. A scrutare dall’alto c’è l’occhio della montagna del titolo italiano, che appare già nelle primissime pagine a scrutare Bell e Sigh, assieme ad altri «occhi in miniatura».

Stava di guardia al cielo, al mare e alla terra e a ogni fregio e intralcio – la luna e le nuvole; i pescherecci, gli yacht e le colonie di sule; i tetti, le strade e i comignoli le turbine, i pali della luce e le guglie.

Accade molto poco sotto quest’occhio vigile in termini umani, ma niente ristagna. Sono le stagioni a scandire il tempo e Bell e Sigh inseguono i cambiamenti ciclici della vegetazione, degli animali selvatici e dei lontani insediamenti umani. Passano gli inverni, le estati e gli anni, sette per la precisione, come sette sono i capitoli numerati del romanzo, preceduti da un prologo che prepara i personaggi e l’ambientazione e un finale breve e metafisico. In questi sette capitoli regnano le ripetizioni e le abbondanti descrizioni ambientali, il vero incantesimo di Baume. Tutto cambia, evolve, si svuota e si riempie, e il monte rimane a guardarli senza dire niente, spalancando il suo occhio divino. Bell e Sigh, intanto, rimuginano poco, parlano ancora meno e il più delle volte concordano di «non fare nulla» per contrastare solitudine e imprevisti. La loro è una presa di posizione granitica: hanno scelto di mimetizzarsi in una vita rurale in cui persino i ragni hanno un ruolo nel racconto, così come le foglie degli alberi vicini, il bestiame di un pastore poco lontano, gli animali selvatici e gli insetti che infestano la casa. Baume attribuisce la responsabilità di diventare dettaglio imprescindibile a buste abbandonate al vento, a fili per stendere i panni che precipitano nel terreno fangoso, a zecche morte e impilate sulle mensole della cucina. Tutto marcisce perché abbandonato a sé stesso, l’incuria domina i momenti di solitudine più acuta, inevitabili, ma addolciti dal vociare della radio. La bravura di Baume sta nel saper raccontare questa trascuratezza con la sensibilità di sempre. C’è un fertile filone propriamente “rurale” nella letteratura anglosassone contemporanea, basti pensare a il recente “Il sentiero del sale” di Raynor Winn, lo stesso spirito di comunione con la natura, ma due protagonisti più tragici: moglie e marito che intraprendono un percorso a piedi sulla costa meridionale della Gran Bretagna dopo aver perso casa, soldi e prospettive di salute. In un certo senso anche Bell e Sigh intraprendono un percorso, ma invece che attraversare la natura e l’umanità limitrofa, si stabilizzano in una casa decadente e affrontano le conseguenza emotive della loro scelta. Nulla cambia, si è detto, tutto si nasconde. In entrambe i romanzi, però, c’è la scelta consapevole del proprio destino e la decisione di legarlo indissolubilmente a territori selvaggi. È possibile che il seme velenoso della società performativa in cui viviamo suggerisca che una vita in un casolare disperso nella campagna sia una perdita di tempo, ed è difficile scrollarsi di dosso tale convinzione, ma Baume crea un equilibrio sottile a cavallo tra la paura e il giudizio. In quel punto esatto ci sono Bell e Sigh, abbracciati, a riposare sul loro materasso malandato, mentre aspettano l’arrivo della primavera.

Si potrebbe recriminare un mancato coinvolgimento verso i personaggi, che di fatto non agiscono, non dialogano, non hanno particolari moti introspettivi e sembrano solo spettatori del tempo che passa, tranne poche e determinanti incursioni nelle preoccupazioni di Bell, di cui Sigh si prende cura senza invalidarle. I rituali superstiziosi di Bell sono una timida costante, ma i problemi, le nostalgie e le incertezze si risolvono sempre e solo «senza fare nulla». Baume, però, corregge il tiro proprio sul finire del romanzo: non sono spettatori semplici, loro sono natura. Lo dice ancora meglio il NY Times in un titolo lapidario e preciso: «Una coppia si isola per sette anni e diventa una persona sola». Ecco la sintesi esemplare dei protagonisti di questa storia: due attori, una coppia, una persona sola.

Bill e Sigh hanno respinto le aspettative della società in cui sono nati e cresciuti e hanno giocato secondo le loro regole, concentrandosi sulle minuzie e disinteressandosi al resto. E pure se cresce una certa inquietudine col passare dei capitoli, e quindi degli anni per loro, in realtà non accade niente, è solo l’ansia della performance a viziare il giudizio.

L’artificio retorico con cui Baume rende questa staticità mai uguale sé stessa è l’uso sapiente delle descrizioni ambientali, degli elenchi di dettagli, a volte fin troppo minuziosi, che solo Bell e Sigh sanno vedere perché sincronizzati con il ritmo lento delle stagioni. Sono le descrizioni ad accadere nel romanzo, non c’è bisogno di altro. Baume presenta un altro modo di scrivere la montagna, più pacato e meno performativo. Viene da pensare al pur ottimo Cognetti de “Le otto montagne”, che ai tempi della montagna ha dedicato un tempo narrativo specifico, ma che finisce sempre in scalate faticose, scoperte nostalgiche da inseguire, baite da costruire a mani nude e fughe sull’Himalaya. Quella di Baume, invece, è una montagna chiaramente differente e lo dimostra il fatto che la scalata avverrà solo a fine romanzo e che il rivelamento conclusivo sarà completamente spirituale. C’è più conforto nella natura di Baume, anche se, in una scelta stilistica molto interessante, questo conforto viene disperso nella trascuratezza e ci si inquieta in attesa di una svolta, un accadimento qualsiasi, oppure di incontrare il fondo di un declino che però non arriva mai e che conferma l’unica tesi possibile: Bell e Sigh hanno scelto la cosa più giusta per loro. E questa è la chiave: non c’è da discutere, piuttosto bisogna sintonizzarsi sui bisogni dei protagonisti.

La scrittura di Baume, come sempre, accompagna la costruzione di questa certezza con una lingua semplice e viva, i già citati elenchi abbondanti per dare corpo al tempo del romanzo, le pennellate per dare forma ai panorami irlandesi, l’assenza di dialoghi e l’uso degli spazi in un linguaggio plasmato come scultura.

Si diceva che nella società della performance questa sembrerebbe una regressione, ma la realtà è che “L’occhio della montagna” narra uno scivolare consapevole nell’oblio, una fusione con la natura per preservarsi e consolarsi. Se a due misantropi togli la socialità, questi diventano parte integrante della natura che abitano, coi loro denti marci e le poche parole. E questo è il teorema di Baume; la stessa incuria era già stata indagata nel primo romanzo: i topi, il cibo dimenticato e irrancidito, la solitudine, la muffa, gli insetti, l’odore di terra, i liquami, i tuoni, il vento, ma è un’incuria che torna alla natura e che in essa trova compimento e ragion d’essere. Bell e Sigh, come la loro casa, del resto, e come i due protagonisti di “fiore frutto voglia fango”, sembrano ricoprirsi di polvere e muschio mentre intorno a loro le piante e le stagioni prosperano.

Quattro anni e sette mesi passarono senza una sola visita. Avevano ricevuto un paio di richieste casuali accolte con terrore e cupa serietà, e dopo un’intricata discussione avevano deciso di ignorarle. A quel punto Bell e Sigh non erano più in grado di sopportare l’eventualità che i loro assemblaggi più preziosi – l’altarino di Elrond, il tripudio di piante grasse, l’accumulo di palle da tennis spelate – potessero apparire a un vecchio amico come disordine, nel migliore dei casi, e caos nel peggiore; di mettere a nudo gli aspetti più splendidi del loro splendido universo […] e scoprire che il vecchio amico percepiva tutte queste cose […] come assolutamente irrilevanti. »

Sarebbe stato impossibile tornare sui propri passi e sembra saperlo anche la voce narrante esterna scelta dall’autrice, che come in una favola, racconta la storia di Bell e Sigh «curiosi di vedere cosa sarebbe successo se due misantropi solitari avessero provato a vivere insieme».

“L’occhio della montagna” è una meditazione sui legami umani e la possibilità di essere parte della natura, quando il rimuginare del singolo si depotenzia spostandosi sulle minuzie della quotidianità. Un romanzo che assume un significato diverso in base a chi lo legge, per cercare consolazione da quel senso di catastrofe imminente che abita in noi, e la sorpresa che, di fatto, quella catastrofe non avviene mai. Non è forse la più grande metafora della vita?

In un’epoca di grandi dimissioni, l’ultimo romanzo di Sara Baume, grande luce della nuova letteratura anglosassone, illustra come ci si possa dimettere dalla società intera e tutto, più o meno, sembra poter andare ugualmente bene.

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