Il valore di Louisa May Alcott e Jo March nella contemporaneità

Nel romanzo della dozzina finalista del Premio Strega 2022, “Niente di vero”, Veronica Raimo scrive di “Piccole donne”:

[…] non volevo essere Jo, non volevo essere nessuna di loro, detestavo l’intera stirpe delle March e covavo la segreta speranza che facessero tutte una fine orrenda.

Opinione confermata più avanti in un’intervista su L’indiependente, in cui viene definito «romanzo abbastanza scadente» e in quell’abbastanza c’è il massimo della benevolenza di cui Raimo è capace.

Dall’altra parte c’è il nuovo “esemplare” della collana “Mosche d’oro” di Giulio Perrone editore, curata da Giulia Caminito, Nadia Terranova e Viola Lo Moro, ovvero “Louisa May Alcott” scritto dalla giornalista, editor e traduttrice Beatrice Masini. Si tratta di un pamphlet critico che racconta Alcott come scrittrice e intellettuale e che offre il giusto spazio anche a “Piccole Donne”, senza il quale la leggenda della scrittrice forse non sarebbe nemmeno nata. Nella minuziosa e attenta analisi di Masini mi ha colpito una riflessione sul suo ragionare di Alcott e famiglia, ma che probabilmente si estende al dialogo sui libri in generale:

Anche solo averla letta mi intitola a parlarne, a dire la mia, bello non bello così così, come fanno gli innumerevoli chiacchieroni che tutti i giorni fotografano i libri amati fra tazzine e fiori spiccati dallo stelo, un compendio di nature felici, di nature morte digitali? Avere letto un libro lo rende nostro? Certo che sì […]. Ma è giusto? È legittimo? […] Parliamo tutti, e troppo ad alta voce […]. Amiamo zitti, ogni tanto.

 

Foto di Alessia Ragno

Esisterà, però, una via di mezzo tra il giudizio severo di Raimo e questo invito al silenzio di Masini sui libri in generale, ma nello specifico anche su Louisa May Alcott e “Piccole Donne”? Ma sopra ogni cosa mi sono chiesta, poi, se ne ho la facoltà di parlarne, io che ho letto per la prima volta “Piccole Donne” a sette anni con tutto l’entusiasmo dell’infanzia e che conservo ancora adesso il ricordo di quella lettura e delle successive. Il nodo della questione, però, è un altro ancora, e cioè la rilevanza di Alcott e della sua opera adesso, più di un secolo dopo. Esiste ancora questa rilevanza oppure l’opera vive di strascichi di successo? È da Masini, però, che parte la mia analisi, perché l’intento di questo libro e della collana a cui appartiene è chiaro e pregevole: circostanziare il lavoro di una scrittrice e intellettuale integrandolo con l’esperienza personale di vita che, in questo libro, assume una dimensione particolarmente approfondita.

Masini scrive molto della famiglia Alcott, un padre ingombrante e una madre votata al martirio, della loro povertà cronica, i ventinove traslochi e la capacità di Alcott di essere e scrivere ovunque, senza particolari sentimentalismi. “Piccole donne”, del resto, sarà composto in tre mesi sullo scrittoio nella casa di famiglia più amata, Orchad House. Una famiglia progressista gli Alcott, favorevole al voto delle donne, contro lo schiavismo, amica di intellettuali del calibro di Henry David Thoreau e come lui votata alla natura e alla connessione con essa. Ma nelle mura di casa resiste un «modello antico», con l’eclettico padre a dettare legge e una madre prossima al fanatismo. Di Alcott abbiamo abbondanti memorie modificate dall’autrice stessa, tagliate su misura sull’immagine che voleva dare di sé e del suo lavoro. «Nessuno come uno scrittore sa manipolare la verità», scrive Masini, consapevole che Alcott è la più brava in questo, perché il taglia e cuci sulla sua vita plasmerà non solo la scrittrice, ma anche i suoi personaggi. È legittimo chiedersi, allora, come si comporta l’eredità letteraria di Alcott in questi tempi in cui il femminismo contribuisce a plasmare, per fortuna, le coscienze delle lettrici e dei lettori più attenti, e perché è importante che la scrittrice americana figuri nella collana Perrone, lei che si era definita «mite, umile scribacchina a cui è stato detto di continuare a insegnare» e che, dopo una gavetta tra storie d’avventura, era arrivata a pubblicare romanzi. Bisogna ricordare, però, che Alcott scrive anche per tamponare gli enormi problemi economici della famiglia; sarà lei, infatti, a riportarla a galla con l’enorme fortuna dei romanzi. Il suo senso del dovere verso le proprie radici sarà uno dei motori principali della sua creatività.

Louisa May Alcott

“Piccole donne” viene pubblicato per la prima volta il 30 settembre del 1868 e diventa un successo istantaneo, nonché un «longseller da 150 anni». Ed ecco evidente le prime ragioni del successo: l’essere avanti rispetto ai tempi e le sue protagoniste, le sorelle March, compendio di tutto ciò che di rilevante, a suo avviso, le è accaduto nella vita: l’indigenza, l’altissima moralità, la capacità di discernere tra ciò che è buono, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e la loro cultura, altro valore fondante degli Alcott e delle March. E sulle sorelle protagoniste spicca Jo, idolo largamente condiviso, rivoluzionaria nel suo essere piena di inventiva, indipendente, cocciuta, una “tomboy” diversa nelle aspirazioni e nel linguaggio. Jo è l’eredità più duratura di Alcott, ma Masini scrive:

[…] una ribelle più mite di quanto non appaia: i suoi atti sublimi sono capricci infantili portati all’estremo, e si concludono con l’infanzia, o appena poco più in là.

Colpa di un matrimonio canonico, dei figli e la vita votata all’insegnamento. Jo addomesticata come Louisa, appesantita dalla famiglia, ma entrambe diverse dal canone femminile dell’epoca, ed è su questa diversità che “Piccole donne”, nonostante il profluvio di buoni sentimenti e lezioncine morali, spiccherà anche nei prossimi cento anni. Louisa e Jo sono state le prime a deviare dal tracciato della società patriarcale dell’epoca; piccole variazioni e grandi sogni, ma comunque esempi di percorso di vita atipico in un tempo in cui l’unica strada praticabile per una donna erano matrimonio e maternità. È così ancora adesso, sono quelle le strade più auspicate, il lavoro viene solo dopo, figuriamoci la scrittura, e questo, tragico punto di contatto col presente mantiene viva l’efficacia del messaggio del personaggio Jo.

Mi è capitato di confrontarmi spesso su “Piccole donne” e su quanto abbondino i buoni sentimenti e la celebrazione della vita domestica simbolo del patriarcato che regola le vite delle sorelle March, ma chiuso un occhio sul tono antiquato (è pur sempre un romanzo del 1868), c’è ancora spazio per contestualizzare quella scintilla di femminismo che c’è in Jo, più di tutte le sorelle, e in Louisa. Del resto Alcott è stata la prima donna registrata per votare a Concord, Massachusetts, ha sostenuto con vigore le cause del suffragio universale e dell’abolizionismo della famiglia, diventando amica, in età adulta, di figure come Frederick Douglass, politico e scrittore, abolizionista e sostenitore del diritto di voto alle donne, e della poetessa e attivista Julia Howe. Alcott è stata una femminista ante litteram, un’intellettuale completa, consapevole e indipendente, non ha mai avuto paura di andare contro la credenza comune.

Il film di Greta Gerwig

Quattro le trasposizioni cinematografiche del romanzo, l’ultima del 2019 con Greta Gerwig, la regista, che riproduce Orchad house nei minimi dettagli per dare una casa alla sua personale versione della famiglia March. Ed è questa edizione cinematografica, vicina al centocinquantesimo compleanno del romanzo, che ha ridato interesse al dibattito intorno ad Alcott. Non si può non notare la “unbereable whitehness”, come la definisce Caitlin Flanagan in un articolo di archivio dell’Atlantic, del femminismo di Alcott e la straordinaria capacità di non interessare mai nessuno spettatore, solo lettrici e spettatrici. Ma si tratta davvero di un punto a sfavore o forse lettori e spettatori sono troppo abituati a snobbare scrittrici e registe?

Pur lontana dalle esigenze del femminismo moderno, Jo March rimane un punto di partenza che va contestualizzato e riadattato e le sue scelte di vita vanno ugualmente ricontestualizzate, sottolineando quanto sia stato fondamentale poter accedere, negli ultimi 150 anni da lettrici, a una scrittrice fatta e finita, anzi due: Louisa e Jo. E, in fondo, il matrimonio di Jo con il professore dall’accento tedesco e quindici anni in più di lei è comunque un atto rivoluzionario contro il volere di chi legge, che già a metà romanzo aveva deciso che il suo destino fosse legato a quello di Laurie. Ed è rivoluzionario a tal punto che il professor Bhaer, questo il nome del marito, sarà l’unico a spronare Jo nella sua carriera di scrittrice spingendola oltre i pur amati racconti d’avventura. Insomma, Bhaer era la scelta migliore tra tutte le possibilità che aveva Jo.

Come si specifica in un articolo molto significativo sul femminismo controverso dell’opera, “Piccole Donne” non è un classico femminista, ma è stato capace di raccontare, pur con toni didattici e melensi, una parte della vita delle donne di quel tempo e della realtà domestica a cui erano soggette dimostrando che sì, erano cose di cui valeva la pena scrivere letteratura. L’analisi critica si conclude con la verità più grande: Jo e “Piccole donne” tutto non volevano cambiare il mondo, non erano abbastanza radicali, ma di sicuro erano ribelli in un contesto fortemente patriarcale. Louisa May Alcott lo sapeva ed è per questo che ha dato loro, e soprattutto a Jo, il maggior spazio di autodeterminazione possibile. E questa evidenza non si è persa nemmeno adesso, 150 anni dopo.


Per approfondire:

Orchad house e il roghi della vita della famiglia Alcott 

The Conflicted Feminism of Little Women 

Orchad House nel “Piccole donne” di Greta Gerwig

Little Women’s Real Feminist Problem

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