E lontano lontano c’è Tenco

Le parole, soltanto le parole, bastano per fare una canzone che sia veramente vera, giusta, moderna.
(Luigi Tenco)

Per tutta la sua breve vita Luigi Tenco è stato un enigma. Un enigma è la sua morte, consumata in una notte al Festival di Sanremo, un enigma sono le sue canzoni, canzoni d’amore e di protesta, canzoni fatte di parole semplici e versi potentissimi. Un enigma è pure la venuta al mondo del futuro cantautore, nato da una relazione extraconiugale della madre con un giovane torinese. Tutta l’esperienza di protesta della sua vita in fondo comincia anche da qui, dal sentimento di estraneità che il piccolo Tenco inizia a maturare nel Monferrato e si porta appresso a Genova e fino alla notte di Sanremo.

L’Italia in cui nasce Luigi Tenco è l’Italia del fascismo e delle sue contraddizioni, e in questo clima la famiglia Zoccola tenta di nascondere il chiacchiericcio sotto il tappeto. Nessuno doveva sapere che Teresa aveva avuto un bambino con un uomo che non era suo marito Giuseppe Tenco, e così il cognome del nuovo venuto resta quello del papà d’ufficio, che per un banale gioco del destino porta il nome di un più famoso Giuseppe che resse da padre di una più famosa Teresa. L’altro padre, quello vero, si narra fosse invece andato a combattere sui monti coi partigiani in tempo di guerra, prima di tornare a Torino e fare l’avvocato. Ma anche qui ci muoviamo nel terreno dell’enigma, di leggende dette e contraddette della vecchia Italia. L’unica cosa certa è che a fare di Luigi Tenco un italiano incompreso ci si mette persino il giorno della sua nascita, le piccole storie di paese, i sussurri che se ne vanno di bocca in bocca, l’addio dolente al Piemonte e agli spazi aperti per andare a Genova e cominciare tutto daccapo insieme alla madre.

A quei tempi Genova era una grande canzone, è qui che comincia la storia del musicista e quella dell’uomo in protesta – due storie che finiscono per sovrapporsi. Come diceva lo stesso Tenco, si può essere un cantante di protesta ma pure un ragioniere in protesta, e altrettanto un poeta può essere integrato al sistema: non è quello che si fa ad animare il dissenso. È tra le strade di Genova che matura il dissenso di Luigi Tenco, e che la sua giovinezza finisce per incappare nell’amore per il sassofono e la musica; è tra i carruggi che Tenco si innamora del jazz e si fa animatore di quella scuola genovese che è stata una miniera di incontri. Tra quelle strade incappa pure in un altro giovane animato di dissenso, che si strapperà dal seno della famiglia borghese per mettersi a cantare pure lui. Parliamo di Fabrizio De André, che da Tenco ha preso (Quando) e a Tenco ha restituito in forma di canzoni (Preghiera in gennaio), ma che al contrario di Tenco è riuscito a evadere dalla logica dell’incomprensione che tocca agli enigmi dimenticati, forse perché Fabrizio non ha disertato la scena con la morte ma ha solamente continuato a cantare per i disertori come Luigi. Del resto una delle grandi incomprensioni del carattere di Luigi Tenco sta proprio nel fatto che abbia disertato, che se ne sia andato con un colpo di pistola mentre cantava a Sanremo, sul palco museale e più fiorito d’Italia, nel luogo della grande tradizione, nel tempio dove ha cercato fino all’ultimo di scendere a patti con sé stesso – di cantare la canzone italiana popolare tenendo per mano Dalida, di cantare con parole oneste un Ciao amore ciao che era assieme un ciao all’infanzia e un ciao apocalittico di commiato, un ultimo inchino al pubblico a casa, e a quello in sala. Su quel palco Tenco è passato ancora una volta come un enigma.

Ma io non le so fare le canzoni come le fa Morandi, diceva tante volte Tenco per provare a spiegarsi. Ma restava lo stesso misterioso cosa volesse dire quel ragazzo che cantava “e lontano lontano lontano nel tempo qualche cosa negli occhi di un altro ti farà ripensare ai miei occhi”, cosa volesse dire veramente non era chiaro – che tenevano di diverso le parole di un’altra banale canzone d’amore italiana? Un paio di altri occhi ti ricorderà di me: è tutto qui? Eppure, passati tanti anni, è difficile immaginare quante altre paia d’occhi possano aver ricordato quelli di Luigi Tenco, e allora quel tempo di cui parlava era già più lontano, e forse non stava cantando nemmeno a una donna ma a tutti noi, a una massa indistinta di ascoltatori del suo tempo e di quello a venire. Cantava con il domani in bocca.

Per quanto si vogliano addomesticare le canzoni di Tenco a un significato, riportarle coi piedi sulla terra, è sempre bello scavarle a fondo perché si rivelano molto più dense e indefinite, sono mondi in cui ci si può perdere, sono vini da far decantare. Quando in Vedrai, vedrai canta “si lo so che questa non è certo la vita che ho sognato un giorno per noi”, Tenco sta cantando a sua madre con una carica di sincerità rock difficile da rintracciare nei testi della sua generazione, che in tanti casi non faceva che tradurre dall’estero attitudini e parole del momento. Tenco voleva fare dell’Italia una terra con una sua propria tradizione e dimensione folk, prendere la canzone italiana e farla suonare sincera.

La protesta di Luigi Tenco era già esplosiva nelle sue canzoni, dove con parole semplici e sovversive era lì a ricordarci che “ognuno è libero di fare quello che gli va”, e che gli insegnamenti delle maestre e dei preti si contraddicono dentro la vita reale, che pure l’amore è una sommossa strana perché ci si può innamorare quando non si ha niente da fare o quando basta un ritardo, e ancora che “se ci diranno che per rifare il mondo c’è un mucchio di gente da mandare a fondo”, possiamo dire di no. Tenco è una parte di quell’Italia incompresa e sommersa che non capiva cosa ci potesse essere di pericoloso o fastidioso nei “capelloni”, un’Italia più spaventata dall’ipotesi di non vedere mai il giorno dell’approvazione del divorzio in un paese ancora troppo rappreso dall’oppio del cattolicesimo, un’Italia che guardava verso mattinate future.

Così l’uomo Luigi Tenco si sovrappone al protagonista del film La cuccagna di Luciano Salce, un protagonista che per certi versi richiama il cinema americano e i suoi eroi alla James Dean, ma mentre la posa di Dean è più nichilista perché giovane e americana, quella di Luigi Tenco è europea, italiana, e per forza di cosa più disperata, più arresa, più cinica. Nella Cuccagna Tenco sembra interpretare sé stesso, o comunque un uomo in linea con sé stesso, critico nei confronti del mondo sballato del boom economico, e che si riconosce più volentieri nelle parole scritte da Faber nella Ballata dell’eroe, parole che si scagliavano contro la retorica dell’eroe di guerra, dell’eroe che non trova nessuna consolazione dentro una medaglietta o un’idea generica di patria.

Quando sentiamo una canzone di Tenco, o una canzone cantata da Tenco, ascoltiamo messaggi di una semplicità disarmante, detti con parole che disarmano altrettanto, ma che ancora oggi – per uno strano paradosso – restano incomprese. Se è semplice dire che la patria è un’idea generica, una striscetta che abbiamo segnato a terra arbitrariamente, nella realtà siamo ancora fermi a litigarci sopra; e ancora ascoltiamo la maestra che a scuola ci ripete che siamo tutti uguali, e così facciamo raccontare ai bambini che solo col tempo si accorgono che nella realtà ci si sbrana; peggio ancora reagiamo al fatto che ognuno sia libero di fare quello che gli va, di vestirsi come gli pare, di portare i capelli come vuole. Quel genere di semplicità è tuttora incompresa, quelle canzoni sussurrateci in confidenza sotto le note di un pianoforte sono ancora oggi incomprese, quasi che più le cose sono semplici e più diventano incomprensibili, come se Luigi Tenco sia stato il più bambino tra tutti, il più sincero e il più maledettamente incomprensibile.

Proprio lui che cantava in maniera così diretta, così chiara. E forse è anche colpa di queste incomprensioni se la leggenda dice che cantava canzoni troppo tristi, canzoni troppo depresse. Luigi Tenco si porta dietro tutta una serie di fraintendimenti cantautorali e pure di piccoli misteri sbiaditi di un’Italia mai svelata, come quelli che avvolgono la sua morte (è stato un suicidio quello del 27 gennaio a Sanremo o l’omicidio di un uomo scomodo?). Ma basta tenere le orecchie aperte per capire quello che veramente ci voleva dire, con quelle canzoni che sono ancora belle nel senso più puro della parola, e persino divertenti nel loro sarcasmo. Anche qui – a distanza di anni e tante rose, lontano lontano – sono veramente le parole le protagoniste delle canzoni di Tenco, e a quelle torniamo.

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