L’ultimo ritratto di Oscar Wilde è al cinema e vi conquisterà

Fin dagli albori il cinema si è rivolto a Oscar Wilde come una riserva inesauribile di storie, personaggi, variazioni: dall’adattamento de Il ventaglio di Lady Windermere di Ernst Lubitsch (1925) a Wilde Salomé di Al Pacino (2011), esistono almeno 18 versioni solo de Il ritratto di Dorian Gray. Nel 1997 l’icona del poeta e drammaturgo irlandese – che ha conosciuto l’apice del successo, i fasti dell’alta società londinese, poi la vergogna e la rovina a seguito della condanna per omosessualità, che in Inghilterra resta un reato fino al 1968 – ha trovato la sua perfetta incarnazione in Stephen Fry. Se Wilde di Brian Gilbert raccontava tormento, debolezze, ma soprattutto la grandeur del genio e del dandy, oggi Rupert Everett sceglie di raccontare Monsieur Melmoth: un uomo che ha perso tutto, costretto all’esilio in Francia, disperatamente in cerca di denaro e qualche ultimo, fugace piacere.

Ci sono voluti dieci anni perché Everett trovasse i finanziamenti per The Happy Prince – L’ultimo ritratto di Oscar Wilde: un film che racconta con realismo implacabile il crepuscolo di un idolo, spogliato di ogni aura, eppure brillante fino all’ultimo respiro. Everett ha scritto, diretto e interpretato un’opera struggente, che dimostra come Oscar Wilde, autore tra i più celebri della letteratura occidentale intera, resti un uomo che non finiremo mai di conoscere.

L’attore inglese (che ha ispirato volto e sembianze di Dylan Dog, l’indagatore dell’incubo di Tiziano Sclavi) aveva già interpretato Un marito ideale (1999) e L’importanza di chiamarsi Ernesto (2002) negli adattamenti firmati da Oliver Parker. Quindi, ha conquistato pubblico e critica come protagonista di The Judas Kiss, dramma teatrale di David Hares, che si concentra proprio sul rapporto tra Wilde e Lord Alfred Douglas, detto Bosie: il grande amore e la rovina della sua vita. Scrivendo la sceneggiatura di The Happy Prince Everett si concentra sui misteri che caratterizzano la fine di Wilde. Come sottolineato anche nella conferenza stampa romana, è il poeta stesso l’artefice della sua rovina: è lui a denunciare per calunnia il padre di Lord Alfred Douglas, che l’aveva pubblicamente accusato di sodomia, sempre lui a innescare la macchina processuale, come non fosse consapevole delle conseguenze. Tanta hybris sarà duramente punita: il Marchese di Queensberry non fatica a trovare testimonianze della sua omosessualità, mentre il tribunale gli infligge una condanna esemplare, con due anni di lavori forzati. Rupert Everett ha sottolineato un altro dettaglio importante: il governo inglese ha lasciato a Wilde ampio margine di fuga, prima che l’arresto diventasse effettivo. Per questo, la sua fine assume i contorni di un martirio ostinato, volontario e auto-inflitto.

The Happy Prince – L’ultimo ritratto di Oscar Wilde racconta gli anni dell’esilio francese. Per quanto cerchi ancora di mostrarsi elegante e charmant, Wilde è un uomo anziano, provato irrimediabilmente dalla vergogna e dagli orrori della prigionia. Decide di chiedere un’ultima volta il perdono di sua moglie, Constance Holland (Emily Watson). Benché gli venga negato, la donna provvede ancora al pagamento della sua rendita, mentre al suo fianco restano solo gli amici più fidati, Robbie Ross (Edwin Thomas) e Reggie Turner (Colin Firth). Incapace di accettare l’amore di Robbie (che comunque resterà fino in fondo), Oscar si abbandona alla scelta più folle: incontrare ancora Lord Alfred Douglas (Colin Morgan). Dopo la fuga a Napoli e qualche mese di stravizi, una volta a corto di fondi, Bosie torna immancabilmente alla sua routine di lusso e privilegi. Al contrario, la vita di Oscar Wilde finirà il 30 Novembre del 1900 in una squallida pensione parigina: al suo capezzale restano solo Reggie, Robbie Ross e due giovani fratelli francesi, nella fattispecie un fiammiferaio e un gigolò, protagonista di qualche ultimo momento purpureo.

Nonostante The Happy Prince sia la sua prima regia, Rupert Everett realizza un’opera complessa con la sicurezza di un autore consumato. Il film moltiplica i piani del racconto, attraversando presente e passato, realtà e sogno, in perfetto equilibrio stilizzazione, struttura teatrale e realismo più crudo. L’ispirazione è chiaramente Morte a Venezia e il cinema di Luchino Visconti, ma non esclude l’utilizzo ricorrente della macchina a spalla, delle luci naturali e i piani ravvicinati, che rimandano a Dogme 95 e i film dei fratelli Dardenne.

Oscar Wilde/Rupert Everett è anche la voce narrante del film. Naturalmente, non si dedicherà banalmente ai fatti, ma ai versi del De Profundis, La ballata del carcere di Reading e la favola de Il principe felice: magnifico e dolente contrappunto alla bruttura della realtà, mentre la fine si fa ineluttabile.

Concludiamo con i versi del poeta.

“Some love too little, some too long,
Some sell, and others buy;
Some do the deed with many tears,
And some without a sigh:
For each man kills the thing he loves,
Yet each man does not die.”

Oscar Wilde, The Ballad of Reading Gaol

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