M83 – Digital Shades Vol. II

Una colonna sonora continua. Di un video, di un film, della vita. Ma come la vita non sempre riesce a soddisfare le aspettative, pur restando bella da vivere così succede per Digital Shades Vol.II. «It’s simple and imperfect», le parole di Anthony Gonzalez, metà del duo francese M83 annunciando che dopo 12 anni il suo lavoro destinato a essere uno sbocco per ambient e visioni distopiche avrebbe avuto un seguito. Un secondo capitolo tanto atteso che però, sfogliandolo, pone il dubbio se le visioni del regista non abbiano surclassato le priorità musicali. Cedendo il posto da protagonista, non tanto all’esperienza, quanto a ciò che ne dovrebbe essere semplice comparsa. Così il suono relega la musica a fare da accompagnatore di immagini, sguardi, sensazioni, stati d’animo, parentesi di quotidianità. Ma non a crearli, trasportando in un universo parallelo di dejà-vu. 

Perché se la completezza è indiscussa – tra i synth-pop asfissianti, la capacità di fondere sonorità esotiche con ambient conosciuti, di portare nel lavoro la sua esperienza di creare musica per lo spettacolo del Cirque du Soleil o per film e di far calare sullo sguardo il sipario di momenti oramai andati – il copione ben congeniato non riesce nel suo essere etereo ad astrarsi dallo spartito. E per quanto ogni strumento abbia una parte e il film scivoli via, rischia di lasciare solo la nostalgia di volerlo rivedere. Ma non la sensazione di averlo vissuto e posseduto. 

Verrebbe da chiedersi quale sia l’obiettivo del lavoro. Se fosse quello di proiettare in tempi e luoghi premendo un tasto, quasi rivivere film di fantascienza e fantasy, immergendosi in suoni all’altezza delle migliori colonne sonore del passato, ci riesce alla perfezione. Facendo felici gli appassionati della new-wave più retromaniaca. Ma se l’ottava uscita in studio del progetto elettronico francese nasce per imprimere un nuovo passo indelebile nella loro storia, forse, nonostante la decade trascorsa, sarebbe meglio aspettare ancora un po’ sperando in un terzo sequel di Digital Shades. 

Già da Hell riders, brano d’esordio del racconto, si intuisce che la ricerca della goccia che fa traboccare l’emozione, per quanto ci siano tutti gli ingredienti con tanto di chitarra latina e di atmosfere angeliche, non sarà soddisfatta dalla completezza musicale. Un brano che sembra un inno agli spiriti delle epoche musicali con suoni che però catapultano in un poliziesco anni ’80. Senza avere la forza di rianimarlo fino a dargli nuova vita. Con A bit of Sweetness il registro non cambia, anzi si amplifica. Dal fantasy si passa alle telenovela, al romanticismo patinato, alla malinconia incapace da sconfiggere solo con la testa. Un filo che prosegue con Goodbye Captain Lee e che si fa più oscuro e introspettivo con Colonies. 

Nella seconda parte del lavoro lo stile sembra compiere una virata. Meet the friends prende corpo sui tasti del pianoforte, in una crescente intensità che ruba sorrisi teneri e tocca corde oramai sopite. Con Feelings e A Word of Wisdnom, scandita dalla sospirante voce femminile di Susanne Sundfør che non cede al feticcio della parola, ci si addentra nella terza parte del lavoro dove il beat prende il sopravvento. Lune de fiel sembra la sigla perfetta di una serie spaziale. Una parentesi spezzata piacevolmente dai tasti di Jeux d’Enfants. Si continua nell’etere fino a Taufan glory, una fusione tra romanticismo seriale e la determinazione di Temple of Sorrow. Quest’ultimo, primo estratto dell’album, capace di dare una parentesi di carattere a un lavoro che sembra aver preferito mostrare la fragilità nascosta del ricordo alla forza del momento. 

Se resta il dubbio che sembrano lontani i tempi dal successo di Midnight city o di Junk, DSVII, creato solo con strutture analogiche sulle orme di Brian Eno e John Carpenter, riesce però a dare vigore a quanti non sono mai riusciti a seppellire quel mondo lontano. Per capire che la fantasia, appannaggio dell’infanzia, rimane qualcosa di inafferrabile e, purtroppo, non sempre rincorribile. E proprio come ogni desiderio a lungo alimentato, la seconda puntata degli M83 conferma che l’attesa è una parte non contrattabile del traguardo stesso. Come quel rincorrersi e non trovarsi, che lascia nel ricordo e nelle tracce uno strascico di un appetito. Sì gustoso, ma mai appagato del tutto. 

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