Mank, tutto l’amore per il cinema di David Fincher

Pare che il colosso Netflix abbia definitivamente raggiunto un centro di gravità nella veste di mecenate per progetti d’autore che, fosse per i grandi studios hollywoodiani, non potrebbero avere spazio nelle sale cinematografiche. E così, dopo Alex Garland e Martin Scorsese tocca a David Fincher, tornato al linguaggio cinematografico a quattro anni da Gone Girl, intramezzati dalle illuminanti parentesi seriali di Mindhunter e Love, Death & Robots. L’ultimo lavoro del regista americano è Mank, un progetto vecchio di trent’anni, sopravvissuto alla penna del suo sceneggiatore (Jack Fincher, padre di David morto nel 2013), e ben lontano da tutto ciò a cui la mente dietro capolavori come Seven e Fight Club ci ha abituati finora. Il film narra vita, vizi e miracoli cinematografici di Herman “Mank” Mankiewicz (Gary Oldman), sceneggiatore veterano di Quarto potere troppo spesso eclissato dall’ombra del precoce genio di Orson Welles (Tom Burke). Forzato da una gamba rotta a rimanere rinchiuso in un vecchio ranch, a Mank vengono dati 60 giorni per ultimare la prima sceneggiatura libera dalle logiche produttive di tutta la storia del cinema, dalla quale avrebbe preso vita quello che molti considerano “il più grande film mai realizzato”.

Mank è un imponente e sentito affresco della Hollywood anni Quaranta e delle sue idiosincrasie. Se da un lato la “fabbrica dei sogni” si mette in gioco per confezionare prodotti emozionanti per il pubblico, dall’altra parte della barricata si contrappone la ricerca di un sostanzioso rientro economico, che promuove lo sciacallaggio di studios convinti di sapere cosa la platea voglia dal cinema e perciò pronti a fare a pezzi l’artista, immolato senza troppi complimenti in nome del dio denaro. Non a caso, la sorte di Mank sarà quella di venir tagliato fuori dallo star-system solo per aver narrato una storia con uno stile troppo in anticipo sui tempi per riscontrare un successo di pubblico, malgrado la vittoria agli Oscar nella categoria. In questo sistema corrotto s’infiltra pure la politica, che negli anni della Seconda Guerra Mondiale trasformerà la macchina cinematografica in subdolo e mercenario strumento di propaganda.

Gary Oldman in Mank

Ciò che però David Fincher fa in primo luogo è imbastire un racconto di rivalsa per un outsider spesso dimenticato, divorato da un intrinseco masochismo ma indubbiamente brillante, a cui Gary Oldman soffia respiro vitale con una grazia in odore di Oscar, volto cinico e segnato dall’esperienza ma mai sopra le righe. La passione di Fincher padre per la figura di Mank si sospira da ogni dotta linea di dialogo, dai riferimenti al cinema del passato e dalla volontà di dare organica consistenza a ogni interazione tra Mank e chi gli sta attorno, come il magnate William Randolph Hearst (il luciferino Charles Dance) o le apparizioni quasi metafisiche di Orson Welles.

La costruzione narrativa di Mank richiama fortemente quella di Quarto potere, e fa dialogare tra loro presente e frammenti di passato per “dare l’impressione che un film abbia davvero colto l’intera vita di un uomo in due ore”, e supporta così la credibilità di personaggi poligonali, in altorilievo. Volessimo fare le pulci a un progetto tanto intimo, le lunghe digressioni dialogiche sulla macchina cinema possono allontare tutti quegli spettatori non particolarmente interessati all’argomento; ma la forza e il fascino esercitati dallo stampo politico e umano del racconto attirano mente e sguardo per tutta la durata, coccolando lo spettatore ben disposto con un gusto wellesiano per la monocromatica fotografia metallica e per le angolazioni di ripresa spericolate che beneficiano all’esito.

Exit mobile version