Joy Division, dub e futuri perduti: la cultura secondo Mark Fisher

a cura di Daria Catulini

«La depressione è lo spettro più malevolo che ha perseguitato la mia vita […]. Quando nel 2003 ho iniziato a scrivere il mio blog, soffrivo ancora di una tale depressione da riuscire a trovare a malapena sopportabile la vita di tutti i giorni» ci racconta Mark Fisher in apertura di Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti (Minimum fax, 2019). Anche se poi non ce l’ha fatta a sconfiggere quegli spettri, oltre al suo metodo sapientemente eclettico Fisher ha lasciato ai suoi lettori il testimone di una verità importante: non sempre un problema come quello della depressione è solo nostro. La nostra sfera emozionale, dunque, non è isolata in una bolla ma profondamente intaccata da condizioni politiche e sociali.

Nell’articolo Why mental health is a political issue, apparso nel 2013 sul Guardian, Fisher mette in guardia contro il rischio di depoliticizzazione della malattia mentale: se può sembrare facile attribuire le cause della depressione a fattori di tipo economico e politico, è altrettanto banale asserire che l’origine di tutte le depressioni si trova nella chimica del nostro cervello o nei trascorsi d’infanzia: «we need to reverse the privatisation of stress», cioè «dovremmo rovesciare la privatizzazione dello stress». Il problema, scrive Fisher in Spettri della mia vita, riguarda anche la desolazione culturale che abbiamo attorno. Ma «sostenere che la cultura era desolata non significa affermare che non vi fossero tracce di altre possibilità. Spettri della mia vita è il tentativo di fare i conti con alcune di queste tracce». Le tracce seguite in questa brillante raccolta di saggi sono fitte e si rincorrono sulle piste più diverse: da quelle della sociologia a quelle del cinema e, soprattutto, della musicologia. Spetta a quest’ultima, nel libro, la funzione di elevarsi a specchio di certe dinamiche della nostra cultura: la scena musicale rende evidente uno degli assiomi più volte ripetuti nel libro, cioè che «nella musica del ventunesimo secolo il senso di “shock del futuro” è scomparso del tutto». Mentre la cultura sperimentale del ventesimo secolo era preda di un delirio ricombinatorio che dava l’impressione che la novità fosse disponibile all’infinito, il ventunesimo secolo è oppresso da un soffocante senso di finitezza e sfinimento. È estremamente difficile, scrive Fisher, «aspettarsi di assistere al genere di innovazioni apportate dai Beatles o dalla disco music». Questa lenta cancellazione del futuro, che sembra essere la sensazione dominante tra quelle rintracciate dall’autore nelle rielaborazioni culturali offerte dall’arte contemporanea, è accompagnato da una “nostalgia formale” per certi stili emersi molto tempo fa.

 

Cosa è successo? Questa incapacità di immaginare un futuro, specifica l’autore, deve essere spiegata pensando a quei cambiamenti traumatici che in soli trent’anni hanno rivoluzionato il mondo: la globalizzazione, la computerizzazione e la precarizzazione del lavoro. Per offrire un’idea di come il mondo musicale sia considerato da Fisher un laboratorio dove verificare certe tendenze del nostro presente, basterà riportare due esempi. Il primo riguarda la musica jungle, o altrimenti chiamata drum and bass: «vale la pena di tenersi stretti il termine jungle anche perché evoca un terreno» si legge nel capitolo Ghosts of my life. Il terreno evocato dalla jungle è la faccia nascosta di una metropoli che «stava cominciando a subire un processo di digitalizzazione». Non si tratta di celebrazione univoca dell’urbano ma qualcosa di più complesso. Per dimostrare ciò, Fisher si serve di un’affermazione di Kodwo Eshun, secondo cui «nella jungle avveniva una libidinizzazione dell’ansia stessa, una trasformazione in piacere degli impulsi di aggressione e fuga». È proprio nell’impulso distopico che la jungle riesce a liberare «la libido soppressa». Ma l’operazione del critico non si ferma qui. L’aspetto notevole del suo libro consiste tanto nell’evitare ragionamenti astratti quanto nella volontà di verificare le proprie intuizioni sul piano sociologico e culturale. Ne deriva un discorso mai campato in aria, sempre lucido e supportato da esempi concreti. L’operazione compiuta dalla jungle, spiega ancora Fisher, voleva mostrare l’ambiguità di una certa situazione: essa esprimeva il senso di disorientamento seguito alla distruzione della solidarietà e della sicurezza sociale da parte del mondo neoliberale. Se da una parte questa «corrente elettrolibidinale» respingeva in blocco la nostalgia per l’intimità della vita provinciale, dall’altra la sua città digitale non era di nessun conforto al forestiero. Come nei film in cui si dà la caccia a qualcuno (Blade Runner, Terminator, Predator 2), nella musica jungle emerge sia il fremito della preda, quanto l’eccitazione di abbattere la preda inseguita. Ad un diverso livello, ci dice Fisher dopo aver preso in considerazione l’universo cinematografico, «la dark jungle raffigurava esattamente il genere di futuro che il capitale può soltanto ripudiare. Il capitale non potrà mai ammettere apertamente di essere un sistema basato sull’avidità disumana».

Un altro piccolo capolavoro che esemplifica la metodologia di Fisher è il capitolo sui Joy Division. Per l’autore il gruppo riveste una funzione chiave nella storia della musica perché esprime «in termini catatonici il nostro presente, il loro futuro». La musica dei Joy Division sembra essere dominata da «un senso di futuro forcluso». Del resto sono gli anni del 1979-80, il biennio della formazione del gruppo ma anche il periodo della transizione in cui «un intero mondo (socialdemocratico, fordista, industriale) ha manifestato la sua obsolescenza, e i contorni di un nuovo mondo (neoliberale, fordsita, industriale) hanno cominciato a diventare visibili». Si tratta, però, di un giudizio a posteriori, specifica Fisher in nome di un rigorismo intellettuale che non lo abbandona mai. Raramente, infatti, i momenti di rottura vengono percepiti come tali nel momento in cui si verificano.

Come un sapiente disc-jockey che si appella alle tecniche del mixaggio per sorprendere il proprio pubblico, Fisher crea delle sequenze in cui unisce le tracce di storia filosofica a quelle della musicologia. I Joy Division, ad esempio, con la loro «disposizione neurofilosofica» vanno oltre l’«edonismo frustrato» di Iggy Pop o il «mefistofelismo miltoniano» di Mick Jagger, presentandosi come il «più schopenhaueriano tra i gruppi rock»: avendo eliminato «il propulsore libidinale del rock», avevano spogliato il rock di qualsiasi illusione (il depresso è sempre convinto di non avere illusioni). Così il «bisogna continuare beckettiano» diventa «orrore estremo»: in questo modo i «Joy Division hanno seguito Schopenhauer attraverso il velo di Maya e hanno osato esaminare i ripugnanti meccanismi che generano il mondo-come- apparenza». Dunque, ciò che effettivamente distingue questo gruppo, che in qualche modo si pone come «l’equivalente anglo e bianco del dub», almeno in materia di metodo, è «l’assenza di qualsiasi evidente oggetto-causa della depressione». Dopotutto, scrive Fisher sfiorando la propria sfera personale, «la depressione è soprattutto una teoria sul mondo e sulla vita», è sintomo del fatto che l’interiorità ha travolto tutto il resto. Ciò che si comprende raccogliendo le briciole di questo saggista intelligente è che alla nostra generazione tocca fare i conti non solo con «eventi che non sono mai accaduti» ma anche con «futuri che non si sono mai realizzati e che restano spettrali (e qui troviamo nominata l’hauntologia di Derrida). Come compito, allora, si ascolti Burial e il suo dubbing, che riguarda la «velatura di un pezzo, la sua riduzione a un intrigante ordito di tracce, a oggetto virtuale che diventa tanto più seducente proprio a causa della sua parziale smaterializzazione». Questo bellissimo capitolo dedicato a Burial, che si guadagna l’appellativo di «angelo sconsolato», si chiude con un’intervista in cui il musicista inglese ammette di avere un «cuore pigro» e di «tremare all’idea di un’occupazione normale o «di un colloquio di lavoro»: «voglio solo andarmene» dice ammettendo di fare fatica a scorgere un oltre: «Vorrei che là ci fosse qualcosa. Ma anche se lotti per riuscire a vederlo non vedi mai niente. Non hai scelta. Magari stai andando a lavoro, ma sogni d’infilarti in quest’altra via quaggiù, e invece tiri dritto».

Exit mobile version