Mark Lanegan Band – Gargoyle

Gargoyle, le figure dall’aspetto demoniaco appollaiate su Notre Dame, rese celebri da Victor Hugo in Notrê Dame de Paris.
Non può che sentirsi odore di zolfo quando sul fondo dei solchi la puntina legge la voce abissale di Mark Langan.

Fosse nato ai tempi del delta blues, dalle parti del delta del Mississipi, di lui si sarebbe detto che avesse venduto l’anima al diavolo un po’ come Robert Johnson. Il crooner di Ellensburg (WA) ne ha passate così tante da quel 1984 in cui iniziò a far musica, che non può che essere circondato da quel tipo di alea, anche se ormai ha messo in cantina la voce roca che caratterizzava i primi dischi solisti. Insomma molto è cambiato negli aspetti esteriori del suo modo di comporre, sarebbe stato difficile il contrario, ma quello che certamente non è cambiato, e si sente forte, è la tensione sommersa.

Gargoyle, che si annuncia con un singolo decisamente scuro, Nocturne, è attraversato interamente da questa tensione, sin dal principio, e poco importa che si tratti dei brani più confacenti alle origini come Dead’s Head Tattoo, con i suoi basso e batteria incalzanti, o Emperor con le sue chitarre vagamente stoner ed i coretti fatti da Josh Homme, oppure di pezzi dall’incedere liturgico, come un gospel sommesso, sulla base di organi sommessi ed arpeggiatori come Blue Blue Sea con l’ermetismo dei suoi testi.

Arpeggiatori, sì. Dopotutto non è un mistero che Lanegan stia flirtando con gli strumenti elettronici; e non venitevene con le reazioni terrificate di alcuni fan irriducibili del Seattle Sound, quando in Blues Funeral ascoltarono Ode to Sad Disco; tutto questo non ha nessun senso se, come ci ha detto lo stesso Lanegan, questi rappresentano un mezzo per farsi meglio da sè la musica che produce. E quindi non ci vedo da storcere il muso se ad esempio Drunk on Destruction inizia con una base d’n’b, perchè quel che conta è che si sente sempre quella vibrazione simpatica tra le corde vocali e le corde dell’animo che è l’essenza stessa del blues.

Certo, queste caratteristiche vengono magnificate ancor più da arrangiamenti minimali come in Goodbye to Beauty e First Day of Winter con i loro arpeggi semplici (nella seconda sembra di sentire Greg Dulli ai coretti) o meglio ancora nella magnifica Sister dove ritroviamo la voce del nostro stagliarsi su un organo e (indovinate un po’?) un arpeggiatore che descrive una nenia sottile anche quando il sassofono finale inizia il suo ipnotico itinerario strisciando come un serpente sulla linea dell’orizzonte.

Questo rinnovamento non impedisce certo a Mark Lanegan di inserire brani più canonici come Beehive (pezzo che ho trovato decisamente catchy) o Old Swan, ma non venite a chiedere a chi ha attraversato tre decenni di rock’n’roll suonando praticamente tutto quello che c’era da suonare, di imbrigliare la propria ricerca artistica in uno stile di vent’anni fa!

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