Mark Lanegan @ Teatro Duse / Bologna

FOTO A CURA DI LISA BARBIERI

Mark Lanegan è arrivato a Bologna con ben due album in valigia, profondamente diversi tra loro: il primo, Black Pudding, realizzato in collaborazione con il polistrumentista Duke Garwood, ipnotico e blues, il secondo, Imitations, raccolta di cover zeppa di materiale d’annata, dal sapore vintage e un po’ kitsch.

A chi si chiedeva in che modo la scaletta del concerto si sarebbe divisa tra i due album appena usciti (recensiti qui e qui), la risposta è apparsa osservando il palcoscenico: la presenza di violoncello, violino e clarinetto basso (!), ma soprattutto l’assenza di batteria, promettevano un concerto con un’atmosfera tendente a quella 50’s di Imitations (che tra l’altro è anche il nome del tour). D’altra parte, però, il fatto che Garwood sia lo special guest della serata non può essere trascurato… e così è stato.

 

Alle 21 in punto sale sul palco del Teatro Duse, illuminato da una semplice luce rossa, Fred Lyenn, presentandosi con un mormorio incomprensibile, per un breve set di 20 minuti in cui, armato soltanto di chitarra acustica, presenterà un repertorio che implementa il folk-blues più tradizionale con elementi di scrittura e uno stile più contemporanei. Sarà proprio questo continuo muoversi tra tradizione e modernità la chiave di lettura dell’intera serata. Tornando a Lyenn, il cui aspetto ricorda un giovane James Taylor, in molti hanno trattenuto a stento un sorriso non appena ha iniziato a cantare: la sua voce è infatti quanto di più diverso possiate immaginare rispetto a Lanegan, acuta come quella di Jack White, raffinata come quella di Matthew Bellamy, ma capace di emozionare con la semplicità di Daniel Johnston.

Terminata l’acclamata esibizione del cantautore belga è stato il turno di Duke Garwood, cui è stato concesso uno slot più lungo. Anche nel suo caso, i saluti sono ridotti al minimo, così come i sorrisi, quasi fosse un ordine di scuderia. Sin dalle prime note trapela quanto forte sia stata l’influenza del chitarrista in Black Pudding: il riverbero, il tremolo, lo stile chitarristico percussivo ma pacato allo stesso tempo, che ricorda un John Lee Hooker con meno boogie, sembra fatto apposta per far da tappeto alla voce di Mark Lanegan. Ed è forse a causa di un paragone così ingombrante, che la voce piatta, gelida e un po’ anonima di Garwood non sembra entusiasmare il pubblico quanto chi l’ha preceduto sul palcoscenico.

Alle 22 arriva il momento che tutti stavano aspettando: nella stessa luce rossa, fissa, densa, quasi luciferina, fa il suo ingresso Lanegan, indossando degli occhiali che ne stemprano in parte il fascino rock, e che, se non conoscessimo la personalità del cantautore americano, sembrerebbero quasi un ironico tributo ad Austin Powers o Elvis Costello. Avete indovinato, nessuna parola, nessun saluto, nessun ringraziamento: un cenno al chitarrista e si comincia con “When your number isn’t up” da Bubblegum.

La band, dove trovano spazio anche Lynn al basso e Garwood al clarinetto basso, gira intorno alla chitarra twangy di Jeff Fielder, che riesce in maniera perfetta a dare ritmo alla band con i suoi bassi e a riempire di tremolo gli ampi spazi creati dagli archi e dalla voce di Lanegan. Dopo una redenzione molto “cinematografica” del canto natalizio “Cherry Tree Carol” e due pezzi dal fantastico Blues Funeral (l’incalzante tracklist e Phantasmagoria Blues”, la migliore interpretazione della serata) alla Les Paul Jr. di Fielder si aggiunge la solid-body di Garwood, per immergersi al meglio nell’atmosfera di Black Pudding.

Sono ben cinque gli estratti dalla penultima uscita di Lanegan, e l’impressione è che siano tra le cose migliori che abbia mai prodotto. Sì, va bene la voce baritonale, che è il motivo per cui il 90% dei presenti ha acquistato il biglietto (e preso d’assalto il fornitissimo banchetto del merchandising), ma quello che emerge dalle nuove canzoni è che Lanegan sia un ottimo autore, con un grande occhio per le melodie: ripetitive, ipnotiche, indimenticabili.

Terminata questa sezione del concerto, basata sull’interplay tra le chitarre, Garwood torna al clarinetto basso e si passa ad Imitations. Il sound è costante, l’approccio simile a quello adottato per le canzoni precedenti, il celeberrimo Effetto Tom Jones, ovvero “il cantante di mezza età che canta le hit che tutti amano ai casinò di Atlantic City, che artisti come il sopracitato gallese, Rod Stewart e Santana hanno levigato in anni ed anni di carriera, viene fortunatamente evitato. Un po’ della calcolata patina nostalgica dell’album sembra sciogliersi dal vivo, dove la voce di Lanegan, esposta più che mai, porta le canzoni su un piano completamente nuovo, rivelandone l’essenza e la bellezza artigianale che fu sepolta sotto gli archi e le sovraincisioni nelle versioni originali. Le sue reinterpretazioni sono l’emblema del postmodernismo: ci fanno sentire stupidi per aver disdegnato una bella canzone come You only live twice, per il semplice fatto che fosse cantata da Nancy Sinatra (per altro in un film di James Bond). È un po’ il contrario di quello che successe a “You can leave your hat on”: dall’imbarazzo e dalla sottile ironia che trasparivano dall’originale di Randy Newman, si è trasformata nell’inno per antonomasia dell’“uomo che non deve chiedere, mai”.

A sorpresa, Lanegan si lascia andare ad un emozionato (entro i suoi limiti…) omaggio a Lou Reed: “This is for Lou”, mormora, e gli archi introducono “Satellite of Love”, che si concluderà con l’applauso scrosciante del pubblico bolognese. Premesso che non sia un amante dei tributi, soprattutto se, come ho scoperto in seguito, vengono eseguiti ad ogni data del tour, resta il fatto che la versione di Lanegan sia elegante come di consueto e che la sua etica professionale non conceda nulla a quel sentimentalismo esasperato che un certo pubblico brama sempre più.

 

Nella parte finale del concerto, piuttosto breve, trovano spazio “Mirrored”, “On Jesus’ program” (dal miglior disco di cover di Lanegan, I’ll take care of you) e, unico bis, una torrenziale versione per chitarra e voce del classico degli Screaming Trees “Halo of Ashes”, dove, ancora una volta, svettano la tecnica e soprattutto il gusto di Jeff Fielder.

 Lanegan esce ringraziando, la luce rossa si spegne e il pubblico si ritrova colpito dalla luce dal teatro, così stordito ed esausto da non riuscire neanche a chiedere ancora una canzone. È stata una serata breve (un’ora e venti di concerto, escludendo i preamboli), sì (riesco già a sentire le lamentele di chi “ha pagato 25 euro”…), ma così intensa che la gente riuscirà a rendersene conto soltanto arrivata a casa, quando la quotidianità dei toast e degli yogurt riuscirà inevitabilmente a prendere di nuovo il sopravvento.

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