L’ultima danza | Mascaró di Haroldo Conti

Mascarò

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La vita è una nave più o meno bella. Perché tenerla all’ancora? Lasciamola andare. Perché lo dico? Perché il meglio della vita lo buttiamo via cercando sicurezze. Porti, ripari e ancoraggi sicuri. È un accadere, puro e semplice, questo dico. Vero, signor Mascaró?

Musica Maestro! È con una scalcinata banda musicale che inizia la prima pagina di questo prezioso libro e anche quando la banda poserà a terra i suoi strumenti – all’arrivo di una lucente alba – è ancora musica quella che par di sentire a ogni fruscio di pagina, a ogni riga, a ogni saltellante paragrafo scritto dalla penna di Haroldo Conti – qui tradotto magistralmente da Marino Magliani che non tradisce quel senso musicale, quell’orizzonte di libertà, quella deriva anarchica che animano le pagine di Mascaró, ripubblicato – dopo anni di assenza dagli scaffali – dalla casa editrice Exòrma.

Cafuné soffia e risoffia nel flautino d’osso. È il sospiro di una brezza, un metallico stuzzicare, il sottile sospiro di un’anima che si attorciglia nell’atmosfera. Qui, la sua giornata è questa musica che va dappertutto, come una goccia, una pallina, un tempo nudo e crudo, senza dettagli.

La storia ha inizio in una locanda del paesino di Arenales: qui la scrittura di Conti è come una camera da presa che non stacca mai lo sguardo dentro a un lungo ed ebbro piano sequenza. Siamo catapultati all’interno della locanda, tra le assi di legno del pavimento e i tavolini, accanto a ciascuno dei tanti avventori che ne animano le notti. Siamo noi stessi quel luogo, una Locanda Almayer che non può essere, però, trascinata via da una burrasca perché non ha forma ma, come le dune che la circondano, si modella e rimodella con la forza del vento; una locanda che non è animata da spiriti inquieti ma da esseri un po’ indolenti e un po’ sognatori che la nutrono con le loro passioni e le loro visioni oniriche di vita e viaggi. La locanda appare in fermento per l’arrivo del Mañana, una nave che partirà per terre non meglio precisate; ma è come se l’intero paese vivesse di questo subbuglio, di quest’euforia, perché – e sarà un dato dell’intero romanzo – è il cambiamento il motore della vita: ed è solo attraverso la libertà, l’inconoscibile che si cela dietro la curva di ogni possibile incontro che per Conti si giunge al segreto e al senso più vero dell’esistenza.

Nella locanda compare anche il primo dei personaggi che ci accompagneranno durante questo viaggio: si tratta di Oreste, ragazzo dal lavoro e dalle attitudini piuttosto vaghe che sembra, però, animato dalla stessa frenesia di Ismaele all’approssimarsi dell’autunno sulle gelide banchine di Nantucket nel capolavoro di Melville. Ad affrontare, con lui, la traversata in mare arriva subito l’altro protagonista del libro, un artista, attore e circense, il Principe Patagón, personaggio dal cuore allegro e dalla battuta brillante, fine oratore, uomo di mondo e poeta a tempo perso. Sarà loro la coppia che ci condurrà lungo le pagine del libro. E Mascaró allora? Mascaró appare proprio un attimo prima della partenza, accompagnato da altri due cavalieri, completamente vestito di nero, e resterà – ma ci arriveremo – una figura enigmatica e carismatica che aleggerà per l’intero libro come un’ombra sullo sfondo, eppure lo troveremo intatto nel suo mistero agli snodi cruciali delle avventure picaresche di cui è pieno il racconto.

Non appena completata la manovra, Mascaró emerge dal boccaporto completamente vestito, con in testa il cappello dalla cupola alta, e la valigetta in mano. Fissa ciascuno col suo sguardo fermo, saluta con un gesto secco e salta sul molo. Le falde della giacca svolazzano brevemente, la punta della 38 si lascia vedere, gli stivali neri brillano, immagine sbozzata dall’aspetto temibile.

Il libro è diviso in due parti, Il Circo e La Guerriglia, ma sono due parti ben più sfumate di quanto i due titoli suggerirebbero. Nella prima, gran parte della storia è legata al viaggio sul Mañana: è su quel ponte e tra quelle cuccette, tra i fumi del motore, fra le tele delle vele, nei pasti e nei divertenti intermezzi per far sì che trascorrano le giornate – come anche nella descrizione di una portentosa tempesta – che si delineano i tratti e i ritratti dei protagonisti: tra questi il Nuño, cuoco provetto che, una volta sbarcati miracolosamente – nel leggere del loro viaggio tra le onde si ha davvero la sensazione che non si approderà mai sulla terraferma e che, ancora una volta, la vera storia sia il viaggio stesso – nel paese di Palmares, si unirà a Oreste e al Principe Patagón nella brillante e sgangherata avventura di un proprio circo itinerante.

I giorni si succedono. Come uno stesso giorno che si ripete. Di notte il vento aumenta un po’, ma la mattina è calma. Sempre lo stesso cielo che nasce rosa e poi rimane azzurro, sempre lo stesso sole che scotta, lo stesso mare poco mosso, acqua e acqua. Il Mañana insegue il vento, graffia l’aria, cerca la direzione, deriva. Si orienta.

Alla ricerca di un lavoro presso il popolare circo dei Fratelli Scarpa ormai in dismissione, ecco, infatti, che Patagón si trova a un tratto illuminato dall’idea di mettere su una propria compagnia circense – il Circo dell’Arca – coi compagni di viaggio, certo, e con la poca eredità lasciata da Scarpa e lungamente mercanteggiata: il fastidioso e dispettoso nano Perinola, parte del tessuto del tendone, il carrozzone del circo e, soprattutto, l’esilarante Budinetto, leone ormai anziano e conciato piuttosto male, che non fa altro che dormire e trascinarsi stancamente, potendo contare sulla sola dote rimastagli: quella della fascinazione che ancora esercita il suo poderoso ruggito.

La gente per un attimo rimase immobile, smise di invecchiare, perché il tendone s’illuminò al suo interno e tutti videro che esisteva qualcosa di stupendo in questo mondo, anche se non ci fosse stato altro che questo, e fosse rimasto lì, acceso, per tutta la notte, pura e semplice immagine, ogni tanto scossa dalla brezza, come se fosse una cosa viva e dovesse spiccare il volo come una mongolfiera, e tutti, altrettanto leggeri, dovessero decollare da quella terra addormentata sotto la sabbia e potessero vedere dall’alto, come gli uccellini, quel buco nel deserto dove avevano trascorso la loro vita.

Ma, come da tradizione picaresca, sarà la strada e – ancora una volta – lo stesso viaggio a rinfoltire le fila di un’allegra e spesso spensierata compagnia. Le pagine dedicate al circo sono di estrema bellezza. Non solo Conti riesce a riprodurre pagina dopo pagina la magia dell’incanto circense ma poco a poco la carovana dei saltimbanchi si trasformerà in una specie di stella cometa bizzarra e coloratissima, capace di portare la sorpresa, lo spettacolo, il candore dello stupore attraverso i paesini poveri e abbandonati che sorvola e regalando sempre più, alla gente del luogo, un senso costante di famiglia e di vita.

-E ho trovato altri tizi che andavano e venivano come me. Andavano, non importa dove.

-E ti sei reso conto che i piedi vanno avanti da soli, che la Strada non è soltanto un luogo di transito, ma una forma di vita. E a questo punto non puoi più fermarti. […] Significa che sei vivo. Il mondo ti appartiene. Non sei un dannato stronzo che cammina solo per quel tanto che gli è permesso dalla lunghezza della catena.

L’ultima parte vede il ritorno di Mascarò del quale s’intuiscono le ombre di ribelle e di ricercato, un bandito dalla parte del bene che, suo malgrado, mette tutti nei guai costringendoli a una nuova strada e a un nuovo – inevitabile, sembra suggerirci Conti – cambiamento.

Exòrma ha il merito di riportare in libreria l’opera di uno tra i più importanti scrittori argentini del Novecento. La preziosa prefazione firmata da Gabriel Garcia Marquez non introduce al libro ma rende un doveroso omaggio all’amico, all’artista e all’uomo dalla tragica fine. Già nell’ottobre del 1975 Conti fu, infatti, avvisato che le Forze Armate lo avevano inserito in una lista di “agenti sovversivi”. Come scrive Marquez, “le sue opinioni politiche erano chiare e pubbliche, ne parlava apertis verbis e le esponeva sulla stampa: si riconosceva nella rivoluzione cubana e non faceva mistero” al punto da chiamare l’ultimogenito, nato nel febbraio del 1976, Ernesto, come Guevara. Haroldo Conti, cinque minuti dopo la mezzanotte del 5 maggio del 1976 – tornando a casa insieme alla moglie dopo una serata trascorsa al cinema dove avevano visto Il Padrino – Parte Seconda – trovò nel suo appartamento sei uomini armati di mitragliette da guerra che li percossero e li separarono. Alle quattro del mattino, a Marta, ormai sfigurata dalle botte, fu concesso un ultimo saluto al marito; lei stessa si rese conto, quando sotto le sue mani lo riconobbe non bendato, che il suo destino era ormai compiuto: solo ai condannati a morte era permesso guardare in faccia i propri carnefici.

Conti sarà infine trucidato come migliaia di suoi compatrioti, desaparecido insieme a tantissimi altri. È Marquez a voler ricordare – con questa prefazione datata 19 aprile 1981 – che fu proprio il Generale Videla in un’intervista all’agenzia Efe, quando ormai era deciso al suo ritiro dalla presidenza, ad aver ammesso senza altra precisazione che Conti era morto, raccomandandosi, però, coi giornalisti spagnoli, di non diffondere subito la notizia.

A nulla, dunque, servirono gli appelli al Generale trasmessi da quegli scrittori – grandissimi – come Borges ed Ernesto Sabato, più compromessi col regime o comunque non apertamente ostili a esso. In tal senso alcune tra le ultime pagine del libro appaiono quasi drammaticamente premonitorie, nel raccontare proprio dell’incarcerazione di uno dei protagonisti che sarà torturato da un potere non meglio precisato e che rappresenta proprio il contraltare plumbeo e violento all’allegra combriccola che anima le pagine del libro.

Conti avrebbe potuto abbandonare il paese come tanti; la sua parabola divenne invece un estremo messaggio di resistenza che, pur assumendo inevitabilmente le forme del discorso politico, fu prima di tutto artistico e culturale. “Resterò finché sarà possibile, e poi Dio ci penserà” – scriverà in una delle ultime lettere a Marquez – “perché, oltre a scrivere, e neanche tanto bene, non so fare altro”.

E, di certo, gli squadristi che lo andarono a prendere in quella notte tiepida di primavera inoltrata non seppero tradurre la frase in latino che aveva appeso su un cartello davanti alla sua scrivania e che recitava: “Questo è il mio posto di combattimento e da qui non me ne vado”.

Haroldo Conti

È stato già detto – ma è difficile soprassedere dal confronto anche in quest’analisi – di come i personaggi di Mascarò – il gigante lottatore Carpoforo, Sonia, burrosa veggente, Califa, Bocca Storta, Basilio Argimòn, Farseto – certamente nella dimensione circense, ma in realtà a ogni piega della storia, hanno un sapore felliniano (Conti nascerà cinque anni dopo il maestro riminese) nella loro diversità, nel loro rappresentarsi come altro dalla morale e dal costume comune, nel loro senso di libertà e ancora di più nella loro innocenza.

Ed è difficile non innamorarsi di questi personaggi, dei loro percorsi sghembi, dei loro pensieri taciuti, delle loro passioni segrete, dell’euforia dilagante, del senso di cameratismo che, di là dalle differenze e dai contrasti, si rivela davanti alle avversità, durante gli spettacoli, nelle feste nelle locande attraversate, nella creatività e nell’incredibile inventiva che mettono su per sfuggire alle improvvise e impreviste tenaglie della legge degli uomini.

I personaggi di Mascarò diventano, così, un tutt’uno con il senso segreto che si cela dietro la mano che li dipinge, anime allegre e combattenti, che mai si arrendono alle avversità della vita e che nei confronti della vita dimostrano – spesso ricambiati come una moneta per il mendicante – un amore assoluto e sconfinato, che conoscono il valore dell’amicizia, dell’amore, della sfida, della seduzione di una donna e del pubblico, della giustizia e dell’ingiustizia, così profondamente lontani dalla miseria della slealtà e del tradimento. Personaggi che viaggiano con poco o niente perché portano dentro di sé un bagaglio inestimabile di ricchezza: quello degli incontri e delle storie che hanno vissuto, di racconti da tirar fuori in una notte fredda e piena di vento, da dividere con persone appena conosciute come a concedere contiguità e calore.

Sarebbe facile ma probabilmente disonesto leggere le pagine di Mascarò, ultimo romanzo di Conti, attraverso la lente della premonizione; qui preferiamo invece immaginare la bellezza di un atto di resistenza che, al nero dei vessilli dell’ordine e della disciplina, opponeva il caleidoscopio colorato di un’armata Brancaleone di perdenti felici, di disadattati, di freaks liberi e innocenti che – come nello specchio deformato di un luna park – restituiscono l’immagine buffa ma felice di un sorriso perpetuo.

Queste sono cose che non ritornano, ragazzo mio. Cose che succedono una sola volta. […]

È la strada che te le offre. Inutile cercarle altrove. E sono tante, e tanto più spesso, quanto più uno sta fresco e in bolletta.

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