La performance del matrimonio | Intervista a Leah Hager Cohen

Un matrimonio e l’attesa. Cinque giorni che durano un’eternità e il confluire dirompente degli ospiti come un fiume in piena. Sono questi gli ottimi presupposti di Matrimonio in cinque atti (SUR, 2022), un romanzo familiare che non rinuncia alla sua leggerezza intrinseca per trattare tematiche importanti come identità e inclusione.

Tensioni, momenti di difficoltà, accompagnano l’ingresso in scena dei membri delle famiglie, amici delle spose, come personaggi di un canovaccio dal sapore tragicomico che nasconde sorprese. Il microcosmo della famiglia di Bennie e Walter, di tradizione ebraica, si confronta con la comunità della sua città che sta registrando la presenza sempre più invadente di ebrei ultraortodossi e cerca di adattarsi a questa nuova realtà. Sul piano temporale, l’avvicinamento al matrimonio è rallentato da continui balzi temporali che favoriscono il dinamismo accattivante della narrazione. In particolare, la prospettiva della zia Glad favorisce dolorosi salti in un passato oscuro. Un passato che tutti vorrebbero dimenticare e invece l’anziana Glad porta con sé, sul proprio corpo, i segni di quel trauma, un incidente avvenuto anni prima.

Leah Hager Cohen, autrice di sei romanzi, insegna scrittura creativa al College of the Holy Cross del Massachusetts. Come un petalo bianco d’estate (Garzanti, 2013), inserito tra i libri dell’anno dal New York Times, è il suo primo libro uscito in Italia, seguito quest’anno da Matrimonio in cinque atti (SUR). Ho incontrato a Roma l’autrice, che ringrazio per la disponibilità, in occasione del suo intervento, una delle anteprime organizzate per il Festival delle Letterature.


Partiamo dal titolo. Come valuta il titolo che è stato scelto per la traduzione italiana (quello originale è Strangers and cousins), cosa distingue concettualmente la scelta dei due titoli?

È molto buffo, perché, quando ho cominciato a scrivere, il primo titolo che avevo scelto, il più immediato, era stato proprio “Spettacolo di una famiglia felice”. Quando mi è stato suggerito dalla casa editrice italiana il titolo Matrimonio in cinque atti, ho subito colto con entusiasmo la proposta. Credo che rappresenti l’essenza più profonda del mio testo e metta in risalto il suo elemento teatrale, il suo specifico modo di rappresentare la realtà.

La vocazione teatrale di questo testo si avverte in diversi punti, come la sorpresa che stanno preparando gli amici, i preparativi per il matrimonio concepito come una performance teatrale, ma emerge già dal titolo (almeno nella traduzione italiana). Da dove nasce quest’esigenza? Ha immaginato questo romanzo adattato sulla scena o su uno schermo?

Sarebbe divertente. (n.d.r. ride) Sono convinta che ogni matrimonio abbia una sua componente teatrale. È uno spettacolo nello spettacolo, tante persone si incontrano e ognuno deve recitare una parte davanti a sé stessi e agli altri, quindi credo che sia l’evento in sé, il matrimonio, a fornire l’esigenza di un’espressività teatrale.

Matrimonio in cinque atti non è solo il racconto di un matrimonio, ma la storia di una comunità. L’evoluzione di un gruppo sociale che subisce scosse, poi assestamenti, ma che alla fine riesce a riorganizzarsi, a convivere con le debolezze e gli errori. In un mondo narrativo, e poi una società dominata dall’ipertrofia dell’io, da dove nasce l’esigenza di descrivere i meccanismi interni che governano una comunità?

La comunità è da sempre oggetto delle mie narrazioni. Cerco di esaminare che ruolo abbia l’individuo all’interno della comunità, quali siano gli ingranaggi in grado di far funzionare la macchina e come funzioni di fatto. Purtroppo devo fare i conti quotidianamente, sia dal punto di vista narrativo che sociale, con l’individualismo che è dilagante nel mondo occidentale e che sembra stravolgere, se non a volte annullare, l’idea stessa di gruppo e comunità. Nei miei romanzi cerco sempre di analizzare quale sia l’esito di questa dialettica conflittuale tra ricerca di individualismo e bisogno di fare comunità e poi dove si collochi la famiglia in tutto ciò. Mi piace immaginarli come dei cerchi, dove ognuno è inglobato da uno più grande. In maniera sempre più vertiginosa.

“È l’estasi della vita. Estasi, dal greco antico ek, fuori, e histanai, stare. Estasi: la condizione di non essere fissato, vincolato, scolpito nella pietra. Sapere che siamo sempre in movimento. Questa è felicità.”

Alla necessità di gestire le singole vicende dei personaggi che poi sono pezzetti di un mosaico che compongono la comunità mi sembra si affianchi la scelta del narratore in terza persona che dovrebbe offrire uno sguardo meno soggettivo, più obiettivo, sulla realtà dei fatti. Invece il narratore di questo romanzo sodalizza con i suoi personaggi, si lascia coinvolgere (e non solo nelle vicende umane, come testimonia la storia della famiglia di ratti), è quasi un “narratore passionato”. Come ha costruito questo alternarsi di punti di vista diegetici e quali difficoltà ha riscontrato?

Ho immaginato, nella costruzione di questo romanzo, non un narratore freddo e distaccato, ma uno che fosse coinvolto nelle vicende trattate. Una voce che si accostasse a ogni personaggio, alle sue emozioni e ai suoi stati d’animo, come uno spirito invisibile che vola sopra di loro e li analizza da vicino. Un narratore vicino e appassionato che restituisse non un’immagine parziale delle loro personalità, ma che li conoscesse così a fondo da poterli addirittura deridere in certi casi.

Nella moltitudine dei personaggi a cui il narratore si accosta e ne racconta le vicende, c’è un personaggio che l’ha più affascinata e perché?

Ho amato maggiormente i personaggi più piccoli, i bambini, e quelli più anziani, in particolare Glad, perché hanno una diversa concezione del tempo in relazione alla loro età, diverse responsabilità e ambizioni, e dal loro confronto si possono trarre molti spunti interessanti.

La famiglia. Quella di Bennie e Walter è una famiglia progressista, inclusiva, perfetta se non per qualche lieve turbamento. Lo statuto stesso della famiglia è stato messo in discussione dalle prove narrative degli ultimi vent’anni, restituendoci un profilo sempre più problematico e un giudizio sempre più nichilistico in favore di un individualismo dilagante. Nonostante le critiche e il precario equilibrio della sua forma, è ancora la famiglia il punto da cui parte la nostra società? Riuscirà a uscire vincitrice, ancora una volta, dal disordine sociale degli ultimi vent’anni, ma soprattutto dalla pandemia?

La famiglia esiste ed esisterà sempre, è il punto di partenza. Può essere più problematica la definizione di famiglia oggi, ma mi piace pensare che possano esserci più definizioni per una stessa idea di gruppo, comunità. La famiglia in fondo è una scelta, può essere anche un gruppo di amici, di persone con cui si condividono esperienze. Se la consideriamo come libera espressione di aggregazione umana, credo che tutti desideriamo essere famiglia, per questo motivo sopravvivrà. Ne sono certa.

L’incontro

È la sua prima volta in Italia?

C’ero già stata, ma solo al Nord. È la mia prima volta qui a Roma, sono molto emozionata.

Che rapporto ha con la letteratura italiana? Quali sono i suoi autori italiani preferiti?

Ho grande rispetto e stima per la tradizione letteraria di questo Paese. Tra gli scrittori che più apprezzo spiccano sicuramente Elena Ferrante, poi Italo Calvino per la loro capacità di essere liberi e far provare questa libertà, questa leggerezza, al lettore.

Progetti per il futuro?

Ho scritto un nuovo romanzo, adesso sto lavorando alla revisione. Ho ancora tanti progetti in testa, tante storie da raccontare.

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