Meditazione e filosofia in due libri luminosi

A Dio per la parete Nord

a cura di Simona Ciniglio

La prima definizione a noi nota della parola “filosofo” la si deve a Pitagora. Un giorno Leonte tiranno di Fliunte, città greca del Peloponneso, gli chiese: “Che cosa sai fare?”. Pitagora rispose: “Niente. Sono un filosofo”.
A Dio per la parete nord – Hervé Clerc

Da bambina avevo una passione incontenibile per la metaletteratura. Se in una storia qualcuno iniziava a raccontare una storia, impazzivo di amore smodato. Non sapevo niente dell’Oulipo ma nemmeno di Upanishad o Vedanta. Induismo e Buddhismo: non conoscevo questi nomi, eppure mi perdevo in sogni e paradossi: se un sognatore sogna di sognare, può sognarsi all’infinito. Ma chi sogna il sognatore? Siccome nasciamo assai svegli, ma cediamo grandi quote di vivacità per adattarci al cosiddetto mondo adulto, le idee incantevoli dell’infanzia spesso le perdiamo di vista. Finché può succedere che il nostro mondo adulto vada in piccoli pezzi. Qualche anno fa la mia vita è finita in qualcosa di simile a un acceleratore di particelle. Mi arrivavano addosso solo guai, e sputati a un ritmo velocissimo. Per una serie di eventi, incontri e strade fortuite mi sono trovata a riprendere e approfondire quelle intuizioni infantili e a scoprire, assieme al mondo nuovo che emergeva dalle macerie, un nuovo modo di stare al mondo, più quieto, raccolto e luminoso. Stare, non opporre resistenza e sentire: sotto strati e strati di dolore, ad avere pazienza si può incontrare qualcosa come la grazia. Nel respiro c’è un mondo cui siamo abituati a non prestare ascolto, spesso sfuggire a noi stessi è l’unico sport nel quale eccelliamo. Poiché la vita (o l’entropia?) ha sempre l’ultima parola, eccoci nuovamente spalle al muro col grande sconosciuto che ci portiamo dentro, in piena seconda ondata di pandemia da Covid-19, in cui, come nella puntata precedente, per salvare vite ci viene richiesto rinunciare al mondo esterno.

Siccome era già chiaro a Blaise Pascal che “Tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo”, e poiché pur dubitando ne usciremo migliori ci tocca intanto durare più della pandemia per uscirne – e durare in cattività, in un inverno che si preannuncia lungo – consiglio un autore a forma di faro: Hervé Clerc. Se vi servissero referenze più autorevoli delle mie, sappiate che Clerc è grande amico di Emmanuel Carrère, che di lui scrive: “Hervé appartiene a quella categoria di persone per le quali essere non è un fatto ovvio. Da quand’era piccolo si chiede: che ci faccio io qui? E che cos’è “io”? E che cos’è “qui”?…È l’uomo meno fanatico del mondo, il più libero da pregiudizi”. Se anziché vederlo come una chiusura al mondo di fuori, questo secondo lockdown più o meno soft lo vedessimo come un’apertura al mondo di dentro?

A Dio per la parete nord è una specie di luminosa inchiesta filosofica, condotta con linguaggio colloquiale e spesso venato di ironia bonaria, sull’altro versante di Dio: il versante nord. Sì perché quando Nietszche affermò che Dio era morto si riferiva a quel dio personale e antropomorfo delle religioni monoteistiche, cui i fedeli si rivolgevano senza ottenere risposte. Il grande Referente era morto. Finalmente liberi! Ma quando, scrive Clerc « ne Il pensiero e le considerazioni morali Hannah Arendt scrive che la frase di Nietszche è “un’evidente assurdità”, una frase semplicemente insensata, lei si riferisce all’altro significato della parola: il Dio senza qualità e attributi, senza fenditure e asperità, metafisico buco nero a cui i teologi applicano talvolta, a torto, l’aggettivo “trascendente”. Questo Dio non può morire perché non nasce ».

Portandosi sulle spalle la tradizione filosofica occidentale a partire dall’antica Grecia e dall’inossidabile Socrate, che sa di non sapere e non alza un mignolo se il dio non lo vuole, Hervé Clerc ci introduce al Dio che incontriamo dall’altra parte del comune significato attribuito alla divinità da cristianesimo, ebraismo e islam: è un Dio impersonale e abissale, il Dio di Meister Eckhart e dei mistici occidentali, vive nelle molteplici divinità induiste e abita il vuoto buddhista, è oltre il tempo e lo spazio. Non ha fine né inizio e non può morire né noi possiamo uscirne giacché permea tutta la realtà.

Tra molte intuizioni validissime, supportate da una vasta bibliografia che comprende Upanishad e Vedanta, la Bibbia e il Corano, e ancora Spinoza, Guénon, Levy, leggiamo che il Male è solo assenza di Bene, come il freddo è assenza di calore, e che ciò che caratterizza i mistici, coloro che spendono il tempo cercando Dio – e trovandolo, magari sparendo per sempre, inghiottiti dal nord come gli dei – è l’ardore, parola meravigliosa che richiama sacralità e sforzo, ma soprattutto senso: è la ricerca ardente il senso ultimo della vita.

Il racconto di Clerc bambino che sente la gioiosa e vispa presenza della divinità nelle cose ricorda per splendore le poesie di Rumi o il Cantico dei cantici, dove Dio è una radiosa corrente di amore, compagno di giochi, sorgente ineffabile di felicità. Il sentimento del divino non è codificabile, non riconducibile a mode passeggere con i loro mantra e le loro credenze, non si assoggetta a regole o dogmi, ma è pura percezione. Come confutare un’esperienza tanto intima e indicibile? Ed è davvero tanto preferibile pretendere avere ragione affidandosi alla sola logica, all’accettare di vivere istanti di segreta radiosa felicità?

«Non è escluso che l’ampio disinteresse dell’Occidente per la religione e la crisi parallela che si allarga nell’islam siano dovuti, tra l’altro, alla nostra incapacità di spiegare che cosa intendiamo con la parola “Dio”».

Il silenzio è cosa viva

a cura di Marina Bisogno

“Se un essere umano ha paura siamo tutti responsabili, non tutti personalmente, ma tutti insieme sì, perché siamo chiamati a rispondere della nostra connivenza e copertura non solo dei fatti che generano la paura, ma delle parole che li raccontano e che non possono essere dette e condivise”.

La frase virgolettata è di Chandra Livia Candiani, poetessa, traduttrice di testi buddhisti, maestra di meditazione e autrice de Il silenzio è cosa viva, Einaudi editore. Quando la Candiani ha pubblicato questo testo la pandemia da Covid-19 non era ancora realtà e nessuno di noi immaginava di vivere quel che di fatto stiamo vivendo. Perché un libro concepito prima che questo magma di incertezze ci travolgesse è un alleato nella girandola di eventi incontrollabili che la politica e i media inseguono a fatica, con parole contraddittorie e insufficienti? Chi legge il libro comprende presto che l’autrice contrappone agli sconvolgimenti esterni il sostegno di un proprio centro, di un’interiorità solida.

Chandra Livia Candiani giunge a questa conclusione a partire dalle sue esperienze e dalle sue conoscenze: compone questo saggio per niente manieristico dopo la morte della sorella, evento che segna un confine netto nell’esistenza dell’autrice. Nel libro riversa ciò che sa, che ha sperimentato. Ciò che accade in questo 2020 è anch’esso un fattore di stress che si propaga dalla sfera pubblica a quella intima, personale, di ciascuno. Se la comunità è il luogo dove si attua il quotidiano, dove le complessità sociali prendono forma e si innesca una continuità tra gli aspetti comunitari e quelli psicologici dell’individuo, a causa della pandemia e dello stato di emergenza, ognuno di noi sta perdendo qualcosa di sé stesso. Stiamo sperimentando cosa significhi considerarsi solo essere umani: sappiamo che dobbiamo salvarci la pelle, mentre le abitudini, gli affetti, i progetti, l’economia subiscono colpi, contrazioni, limitazioni. Anche chi è in salute soffre, in pena per la vita a cui rinuncia. Ed è qui che la testimonianza della Candiani viene in aiuto. Un aiuto che non è espediente ma metodo, a partire dalla capacità di fare spazio al respiro e al silenzio, di mettere a tacere le voci interiori estranee per dedicarsi all’osservazione e all’accettazione.

Per esprimere il senso della sua ricerca, che diventa poi quella del lettore, Candiani cita Viktor Sklovskij che ne L’energia dell’errore dice “che bisogna volare via come vola solo un uomo che conosce il ritmo delle possibilità”. Possibilità che intravediamo se consideriamo che tutto è impermanente, che tutto passa, e passerà anche questa fase buia della storia contemporanea, che si alimenta delle inadempienze di anni, dei modelli che abbiamo replicato, consapevoli o inconsapevoli, per dare forma al nostro vivere comune. “Non si sa se siamo stati preda della notte o se siamo stati noi i predatori del male per consegnarci sopravvissuti all’oblio” scrive la poetessa. E ancora, e notate come il passaggio sia attuale, cogente: “Lasciar depositare la notizia è un percorso lungo, che lo sappiano le ossa, gli organi, la pelle, gli strati di noi. Che si inserisca la notizia nella memoria, piano piano, senza l’esplosione del mattino. Lo chiamano lutto”. E cos’è quello che stiamo affrontando se non un enorme, generale, lutto?

Candiani ci accompagna verso le nostre “mappe per l’assenza” e scrive: “quando sarò tutta crepa, sarò di nuovo intera”. È un invito a stare nel dolore che sentiamo crescere dentro. “Lasciarsi scuotere forte, stare muti davanti al mistero, è così per me che si accoglie l’inaccettabile, non accettandolo passivamente, ma lasciandosi squassare, ospitarlo”. Lasciare è un verbo che ritorna sovente in questo libro ed è il senso stesso del messaggio: mollare la presa, restare vigili mentre ogni cosa muta, ma non inattivi, immobili. Restare presenti, forti delle nostre armi interiori, le uniche che possono salvaguardarci. “Nel mondo ci sono i suoni, i nostri rumori e quelli delle vite degli altri. Nella pratica meditativa, si impara ad ascoltare suoni e rumori da una radicale trasparenza. Come fossimo uno sfondo limpido, ascoltiamo i suoni sorgere, restare un certo tempo, svanire”.

La solidità dell’essere umano è un’illusione: sarebbe meglio parlare di una unicità che nasce dalla frammentazione, dalle tante parti di noi da armonizzare tra loro. Se conoscessimo questo linguaggio, questo approccio fatto anche di comprensione verso il sé, avremmo più strumenti interiori per non soccombere in questo letamaio di norme spicce e comunicazione istituzionale in larga parte banale. Quello che ci circonda ci riguarda, ci influenza, ma non è detto che debba essere la nostra allegoria. Non è detto che se fuori è tempesta, dentro non possa esserci un poco di luce: basta imparare a guardare, a sentire. Questo testo ci mette sulla strada, ci sprona, ci solleva.

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