Piccole apocalissi | Melancolia della resistenza di Lázló Krasznahorkai

La città era solo un freddo labirinto di strade vuote, con finestre dietro le quali stavano sedute persone a fissare lo sguardo cieco nel nulla, e un silenzio soffocante rotto “dai latrati strazianti di cani che si azzannano”

Pubblicato nel 1989 e riportato nelle librerie italiane da Bompiani, Melancolia della resistenza è una delle opere che hanno fatto di Lázló Krasznahorkai uno dei più importanti scrittori della sua generazione. Nato in Ungheria nel 1954, vincitore del Man Booker Prize nel 2015, in questi anni Krasznahorkai gode di una tardiva attenzione internazionale dovuta anche alla lunga collaborazione, in qualità di sceneggiatore – non solo delle trasposizioni dei suoi romanzi – col regista, suo connazionale, Béla Tarr.

Chi ha avuto la fortuna di imbattersi, due anni orsono, nella nuova edizione – ancora di Bompiani – del suo capolavoro Satantango sa bene che Krasznahorkai appartiene al ristretto novero di quegli scrittori la cui forza immaginifica prorompe in tutta la sua grandezza non solo – e non tanto – dalla natura dell’intreccio quanto, soprattutto, da uno stile di scrittura – che il suo traduttore americano, il poeta George Szirtes, ha descritto come “una lenta colata lavica” – capace di dare forma e sostanza al racconto attraverso lunghi periodi che plasmano il tempo e lo spazio. La prosa di Krasznahorkai avvolge il lettore con una scrittura lenta e ipnotica che si fa immediatamente riflesso dell’immobilità in cui spesso i suoi personaggi si muovono in attesa di qualcosa che arrivi a smuovere il ristagno nel quale sono precipitate le loro esistenze.

In Melancolia della resistenza il fulcro centrale del racconto è rappresentato dall’improvviso arrivo in una cittadina “nella valle chiusa dei Carpazi” di un circo, che porta con sé – come unica attrazione – il corpo imbalsamato di una gigantesca balena. Il grande cetaceo diventa, fin dall’immediato, simbolo e catalizzatore di una forza oscura, diabolica ed eversiva che in pochissime ore deflagra violentemente fino a cambiare per sempre l’ordine della città e la vita di alcuni tra i suoi abitanti.

Pur distante dalla rigida struttura di Satantango – i cui capitoli erano studiati come i passi della danza argentina – Melancolia della resistenza non rinuncia, almeno nella forma, a una sorta di ordine interno.

Condizioni straordinarie è il primo capitolo che si apre su un piano sequenza letterario: la scrittura di Krasznahorkai ci conduce con una lunghissima carrellata prima lungo una banchina in attesa di un treno in perenne ritardo, poi nell’umanità che affolla e anima i suoi vagoni quindi nelle strade desolate che dalla stazione portano alla piccola cittadina dove – finalmente – incrociamo la lugubre carovana del circo.

All’estremo opposto, come terzo capitolo e chiosa conclusiva, Sermo Super Sepulchrum prova a raccontare, a spiegare, a narrare i fatti in modo razionale e quasi scientifico ma tutta la storia è racchiusa nel grande corpo centrale de “Le armonie di Werckmeister” da cui il titolo della splendida trasposizione cinematografica proprio di Béla Tarr del 2000. Werckmeister è stato un teorico tedesco del diciassettesimo secolo che con il suo Musicalische Temperatur (1691) introdusse il concetto di “buon temperamento” che semplificava – allontanandolo da quello naturale – il sistema dell’accordatura musicale dei secoli precedenti gettando, di fatto, le basi di tutta la musica occidentale di là a venire a partire dalla grande opera bachiana. Ecco allora che le “armonie” diventano agli occhi di György Eszter, direttore del conservatorio comunale, il grande inganno nel quale si consuma l’umanità intera: la ricerca di un’armonia, di una bellezza, di una forma che diano senso alle cose sono ai suoi occhi nient’altro che il frutto avvelenato dell’arte, della fantasia, dei desideri degli uomini.

Lars Rudolph ne Le armonie di Werckmeister diretto da Béla Tarr,

Melanconia della resistenza è il volo improvviso di un uccello rapace e maligno che spiega le sue ali e getta il suo sguardo sui fatti tragici di una piccola città di provincia che è il campo di una “battaglia oscura” con “il reticolo di marciapiedi e carreggiate ricoperto a perdita d’occhio da una corazza uniforme di scarti, fiume di lordura calpestata e congelata dal freddo [che] serpeggiava scintillando di bagliori sovrannaturali nel crepuscolo del tramonto” – dove si fronteggiano la signora Tünde ossessionata dall’ordine e dal potere – “l’unica cosa che bramava” – e il marito di lei, proprio György Eszter, la figura più eminente della città, ritiratosi ormai a una sorta di esilio privato nella sua stessa camera dopo essersi “ammalato di tristezza a conoscere la verità”.

In mezzo a loro, come una corda tesa, c’è l’anima pura di János Valuska, “artista della vita in estasi”, trentacinquenne fannullone, ubriacone e sognatore che non guarda letteralmente dove mette i piedi tenendo gli occhi incollati alla volta celeste anche quando inaccessibile a causa di un cielo grigio piombo. Valuska è in continuo movimento tra la casa di Eszter del quale è insieme amico, ricordo e nemesi – e la stanza dove vive la signora Tünde; attraversa la città con la sua borsa a tracolla da postino e trascorre le serate al pub, dove puntualmente mette in scena – tra l’ilarità degli avventori – un suo personale planetario vivente.

Sorta di Myskin dostoevskijano – con il suo sguardo stupito sulla bellezza del mondo al riparo dall’orrore – sarà suo malgrado pedina di un gioco troppo più grande di lui finendo travolto dagli eventi, dall’esplosione di una violenta, irrazionale, selvaggia forza a un tempo vitale e mortifera, umanissima e sovrannaturale.

Era sempre più chiaro che tutti i misteri avevano una sola causa: la balena, sì, non poteva essere nient’altro.

Avvolti fin dalla prima scena dalla “sensazione generale che potesse accadere di tutto”, è però intorno a piazza Kossuth, dove tutti si radunano per osservare quell’“attrazione che secondo certe voci sarebbe diabolica”, che tutto sembra improvvisamente girare. Non solo la balena – che già in Moby Dick assurgeva a emblema dell’ineluttabile malvagità del destino – ma è soprattutto la figura enigmatica del “Principe che girava il mondo come un sovrano vendicatore a reclutare seguaci per eseguire le sue condanne” a emanare una forza magnetica e nichilista destinata a far precipitare gli eventi. Personaggio misterioso, straniero e deforme – non lo si vedrà mai per l’intero racconto, sarà solo Valuska ad ascoltarne la voce, a coglierne per un attimo le fattezze dietro a una tenda del carrozzone – il Principe per il quale “nulla è sacro“ racchiude nel suo mistero la chiave di una notte che subirà improvvisa “il fascino oscuro e ancora sconosciuto di una caccia all’uomo”.

Vi ha detto: “fate l’intero dalle rovine”

Come accadeva per l’Irimiás di Satantango, anche il Principe è un personaggio che deve la sua forza e il suo fascino all’assenza che alimenta suggestioni e fantasie sul suo conto: è “uno spirito venuto dall’inferno”, “fatto di carne e ossa, ma sono altra carne, altre ossa” che “non ordina mai niente”.

Il diabolico, il demoniaco, il riferimento continuo alla forza di un potere sovrannaturale ed esoterico sono gli elementi di un filtro denso e riconoscibile attraverso cui raccontare la misera quotidianità di una città di provincia di là dalla cortina di ferro, un filtro che diventa la voce autorevole e autentica di uno specchio allucinato e deformante attraverso cui far emergere la mancanza di senso nelle cose umane.

Ebbe la sensazione che il cielo non fosse più al proprio posto […] che non c’era niente al posto del cielo; quello che cercava non esisteva più, era stato inghiottito dalla terra, da quella marcia, dalla congiura dei particolari

La miseria, l’infinita attesa, l’immobilità saranno spazzate da un “barbarico grand guignol” nel quale come un filo di paglia trasportato dal vento è trascinato lo stesso Valuska. Ma se per il Myskin de L’Idiota l’incontro con il male assume le sembianze di una drammatica e irreversibile chiusura in se stesso e nella propria malattia, per Valuska – fino ad allora “venato da una malinconica tristezza, perché nonostante gli sforzi non riusciva a capire” – il terrore è qualcosa che gli consente di “presentire una cosa fondamentale: quella notte infernale l’avrebbe costretto, lui, un idiota apparentemente incurabile, a uscire per sempre dalla foresta di illusioni decennali nel modo più brutale”.

Non avevamo grida per squarciare il silenzio immenso che lentamente ci aveva avvolti come un velo, e così procedevamo muti sul ghiaccio scintillante che scricchiolava sotto il passo strascicato della nostra marcia distruttrice, nel gelo tagliente, presi da una tensione pronta a esplodere, per strade soffocanti e buie, non vedevamo gli altri, non ci guardavamo tra di noi, se per caso qualcuno lo faceva, era come se si guardasse i piedi o le mani, perché eravamo un unico corpo, un unico sguardo, un unico, spietato, inesorabile, insaziabile impulso di morte e distruzione.

La “notte [nella quale] non aveva più voglia di fuggire da qualcosa da cui, comunque, non sarebbe potuto fuggire” diventa per Valuska la parabola di un risveglio da un sogno a occhi aperti che, trasformatosi in un incubo, lo fa arrendere alla consapevolezza che “Dio non esiste, e nemmeno l’inferno”, che “solo il male possiede una spiegazione, il bene no”, che “non era né il bene né il male a dirigere il mondo, bensì una legge totalmente diversa, quella del più forte”.

Sermo Super Sepulchrum, come anticipato, abbandona la magniloquenza di un linguaggio potente e onirico per consegnare al lettore il rimodellamento della realtà attraverso un prisma asettico di testimonianze, di verità scritte su atti pubblici che moltiplicano le verità facendo emergere un disegno per quanto vago molto più umano che demoniaco.

Più volte, soprattutto nella seconda parte della notte, aveva avuto addirittura la sensazione di dirigere, orchestrare gli eventi, e non solo di prendervi parte.

Un cambiamento di stile che alterna il tono del grottesco per la sfilata di meschine ambizioni borghesi fino alla freddezza scientifica che conclude il libro e che sembra suggerire che se è vero che quella di Werckmeister è l’illusione dell’arte tutta, nello stesso tempo ne rappresenta anche la sua missione più alta: dare un senso, generare una trama, regalare una forma a ciò che è soltanto caos.

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