Melody’s Echo Chamber – Bon Voyage

Fluttuare stesi su una nuvola che attraversa un cielo azzurro, in preda allo straniamento, accompagnati da una voce flebile e sommessa, per poi perdersi in un deserto lunare: il secondo disco dei Melody’s Echo Chamber è tutto questo, è un viaggio nell’oblio.

È doverosa una premessa, al fine di comprendere il lavoro nel suo insieme e non considerarlo semplicemente ‘estraniante’. Il disco, prodotto da Kevin Parker (Tame Impala), nasce dalla collaborazione tra Melody Prochet, Reine Fiske dei Dungen e Fredrik Swahn dei The Amazing ed ospiti speciali come Gustav Esjtes Johan Holmegaard (dei Dungen) e Nicholas Allbrook (Pond).

L’incoraggiamento dato da Melody ai suoi collaboratori è stato quello di sperimentare e familiarizzare con strumenti poco conosciuti. Ciò che recepiamo in primis è quindi il senso di straniamento: onnipresente, difficilmente chiudibile entro stretti confini.
Il cantato, flebile e sommesso, che narra mancanze e sofferenza è composto in francese, inglese, svedese. Già questo basterebbe a disorientare, ma se poi il tutto viene associato allo space rock composto da loop e sinuosi riverberi in pieno stile Tame Impala, allora il risultato è amplificato, sembra di fare un forest-bathing invernale, in un Paese Nordico. Difatti, la cantante ha dichiarato che la foresta svedese, con un lago a pochi minuti di cammino dalla sua casa, l’ha aiutata a respirare ed a lenire il suo dolore in tempi di ansia, facendole riscoprire la natura come via di fuga dalle frustrazioni quotidiane di giovani adulti, genitori, come pausa da una vita amareggiante.

 

Nel disco la dualità della voce ha un ruolo molto importante. Oltre al cantato di matrice folk, caldo e sussurrato, viene usata anche in via del tutto strumentale: sottotraccia sono presenti vocalizzi semplici prodotti in perfetto stile dream pop; in altri momenti (Desert Horse) viene filtrata da un vocoder per darle una connotazione del tutto fredda ed elettronica.

Ciò che li ha ispirati, ed ora popola il disco, è la ricerca di un rinnovamento spirituale, spinto da un dualismo tra bellezza e disillusione, tra spensieratezza e dolore. Ci arriva quindi un arabesque di brani dai sapori più disparati: dal dream pop delle parti vocali eteree, ai riverberi psych/space rock, dalle escursioni sonore di chitarre che richiamano quelle di Jhonny Greenwood, dei Radiohead, all’elettronica. Un amalgama di strumenti volutamente fuorvianti, che ha seguito le pulsioni dei compositori: una specie di favola, senza vincoli e senza strutture fisse, che ha permesso loro di uscire dalla loro comfort zone.

Bon Voyage, più che un semplice “buon viaggio”, è il viaggio stesso. Tra latitudini e longitudini completamente diverse tra loro, è un disco a cui ci si affeziona man mano che lo si comprende, una comprensione che può, in questo caso, non avvenire altro che con più ripetizioni. L’ultima traccia, Shirim, continuando con i loop ed i riverberi di chitarra elettrica ruvida, sembra essere diretta proprio all’ascoltatore: qui Melody saluta gentilmente sperando che il suo viaggio ci sia piaciuto, che nonostante abbiamo provato a leggere i suoi pensieri non ci avviciniamo troppo.

Ci siamo avvicinati molto, ed il viaggio è veramente bello, la strada l’ha decisa lei.

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