L’opera dell’umano | Menneskekollektivet – Lost Girls

Il processo creativo di un artista è un momento carico di emozioni. È la fase in cui chi crea riversa aspettative, speranze ed ansie in un prodotto culturale. Una definizione forse un po’ fredda, forse un po’ demodé, ma azzeccata per quelle che sono le dinamiche convulse di produzione e fruizione di un’opera oggi. Quella zona grigia in cui dinamiche fortemente umane si stagliano contro la rigidità delle leggi del mercato musicale, dell’arte, della letteratura…

L’amore e la paura accompagnano l’artista durante il suo lavoro, le esigenze espressive, intellettuali, fisiche e contestuali lo guidano.

Non è la prima volta che Jenny Hval, poliedrica norvegese d’avanguardia, dialoga con il proprio io. Nei suoi lavori precedenti, di forte matrice femminista, ha già parlato al suo corpo di donna che invecchia e che sanguina e della sua condizione nel dover scegliere o meno di diventare madre, ma in questo disco firmato Lost Girls (duo nato insieme a Håvard Volden, chitarrista nella formazione che l’accompagna dal vivo e già con lei nel 2012 sotto l’insegna Nude On Sand) parla alla sua entità creatrice, di tutto ciò che un innominato fruitore chiama arte. Più emotivo e meno ideologico, rispetto ai lavori precedenti di Hval, si tratta di un disco che raggiunge le viscere dell’ascoltatore, trasportandolo in una condizione quasi meditativa.

Lost Girls, nome che deriva dalla graphic novel di Alan Moore e Melinda Gebbie (in cui la Dorothy del Mago di Oz, la Alice di Carrol e la Wendy di Peter Pan diventano adulte), è un progetto nato nel 2018, e che all’attivo prima ha solo due tracce inserite nell’ Ep Feelings.

Menneskekollektivet (dal Norvegese, letteralmente “collettivo umano”) è composto da cinque brani, in cui la voce dolce di Hval si lega alle tremolanti note di synth e alla drum-machine martellante nella sua freddezza meccanica. Alternandosi in un accordo impeccabile, tutte le sue componenti rendono questo lavoro minimalista e complesso al tempo stesso.

Il disco si apre con la title track, che nonostante i suoi 12 minuti di lunghezza non è una traccia proibitiva anzi, ipnotizza chi ascolta, proiettandolo nella titubante condizione dell’essere umano. A partire da una divagazione filosofica dai toni biblici, tenta di arrivare al cuore del processo creativo con la consapevolezza di cercare nel vuoto.

More than iron,

More than lead,

More than gold

I need electricity

I need it more than I need lamb or pork or lettuce or cucumber

I need it for my dreams

Losing Something inizia con questi versi tratti da una poesia inserita in The Policeman’s Beard is Half Constructed, un’opera del 1984 auto-generata dal programma RACTER, curata da William Chamberlain. Una delle prime occasioni in cui un computer viene elevato al grado di scrittore e che nella linearità brutale dei suoi versi, generati da processi di calcolo, si accorge che l’unica cosa di cui ha davvero bisogno per sognare è la corrente elettrica. Una necessità risignificata da Hval e che trasportata nella sfera dell’umanità diventa quell’elettricità, che stimola la forza creatrice dell’artista.

In Carried by Invisible Bodies, Hval parla di “storytelling”, dura, sembra che cerchi le parole nel momento in cui le sta pronunciando: esplora il sentimento che deriva dalla scrittura di un testo, tutti i livelli di comprensione, della finzione del racconto e l’esposizione del sé in pubblico.  Love, Lovers è una sorta di radiografia della parola e della sua produzione, dalla cavità orale del mittente al cuore del destinatario.

L’artista pone delle domande sé stessa, a chi ascolta e al suo prodotto finale. Il risultato è un’approfondita esplorazione della capacità umana di esprimersi, esaltata dalla voce chiara e vibrante Hval assieme alla strumentale scarna ed efficace.

Lost Girls ha creato un’opera che viene generata nel momento in cui viene riprodotta.


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