How it’s MENT to be: MENT Lubiana 2022

Sono più o meno le 20 di mercoledì 8 Giugno quando una certa sorpresa e quell’eccitazione che prende allo stomaco si manifestano fuori dal Kino Šiška, ex cinema e ora centro culturale nei sobborghi di Lubiana. Qui si svolge il primo dei tre giorni del MENT, showcase festival che riunisce artisti provenienti da tutta Europa, ma soprattutto dai Balcani e da paesi vicini, per un totale di 80 concerti dalla durata media di 40 minuti distribuiti su una quindicina di location sparse per la capitale slovena. Uno showcase festival che dà l’opportunità ad artisti diversissimi di mettersi in mostra, espandere la propria rete di contatti, fare networking, crearsi delle possibilità all’interno di un mercato che a me, che pure vengo dalla vicina Trieste, pare lontanissimo.

Foto: Aleš Rosa

Sì perché il pubblico del MENT non è fatto solamente da fan attratti dal grande nome, o da supporter delle numerosissime scene underground locali dall’Ungheria alla Macedonia, ma anche da promoter, manager, direttori artistici, proprietari di club, giornalisti, professionisti del settore. Oltre alla lineup di dimensioni oceaniche infatti, il festival prevede tutta una serie di incontri e conferenze il cui scopo è quello di intravedere possibilità, di aprirsi dei nuovi spiragli, in un mercato musicale ovviamente condizionato dalla pandemia ma anche dallo streaming e dalle modalità di consumo contemporanee e da collocazioni geografiche non proprio centrali nel mercato di oggi. Il programma di conferenze spazia da temi prettamente legati al lato organizzativo del music business (lo stato degli showcase festival nei Balcani, riflessioni sul ruolo dei manager, come rendere sostenibili i tour in uno scenario post pandemico) a questioni puramente musicali (listening sessions, workshop sull’uso dei synth, presentazioni della scena elettronica slovena).

Dicevamo della sorpresa e dell’eccitazione. Fuori dal Kino Šiška quell’atmosfera rilassata ma trepidante, le chiacchiere in lingue sconosciute, le birrette. Gente venuta da tutta la Slovenia a supportare amici d’infanzia (come il batterista degli ottimi Pantaloons), un ragazzo venuto da solo da Vienna spinto unicamente dalla curiosità. Si perché è molto difficile, perlomeno per me, conoscere qualcuno degli artisti presenti in lineup: provenendo perlopiù dall’est Europa, un insieme di scene underground a me sconosciute, eppure solo a un’ora di macchina. Lubiana, mi viene detto, è un po’ la capitale culturale dei Balcani, quantomeno la città dalla dimensione più europea, o più ricca se vogliamo, dove anche in campo artistico si possono avere maggiori possibilità di crearsi un mercato. Storicamente l’immigrazione in Slovenia (e a Lubiana in particolare) da parte di abitanti degli stati meridionali dei Balcani è sempre stata una realtà, anche problematica: la maggior parte della gente che conosco durante il festival ha origini bosniache, serbe, croate, e così via. Questo senso di distanza e di curiosità viene subito messo in pratica con il primo concerto, Sahareya, duo sloveno composto da sorella e fratello (lei alla voce, lui alle basi). Il loro set è pura energia, i pezzi scorrono tra grime e footwork, la cantante accompagna la sua esibizione con una danza continua che non conosce riposo. Si sente molto l’influsso britannico, la maggior parte delle canzoni ha questo senso di urgenza esasperato dai beat drum and bass e garage.

Sahareya. Foto: Kaja Breznočnik

Finito il set, il tempo di prendere una boccata d’aria e ci si infila nella sala al piano terra, molto più piccola. Troviamo qui gli SPIRAL MIND, trio di Koper (Capodistria) che propone un math-rock dalla forte componente psichedelica. Koper si trova in quella piccola fascia costiera slovena, epicentro di una scena fatta di tanti piccoli locali, festival e radio (e di differenze linguistiche con lo sloveno standard). E’ il posto dove la gente di Lubiana trascorre le vacanze, e come la nostra riviera, d’estate c’è una determinata vibe (ascoltare CARO MIO per credere) mentre d’inverno lo scenario è totalmente diverso. Ovviamente al concerto degli SPIRAL MIND questa unicità, questo sentirsi parte di una sorta di California (o riviera romagnola) viene sottolineata dall’annunciatore, e l’immaginario suscitato dalla musica è tutto lì. Un brano si intitola Tristezza, ad un certo punto sale sul palco un sassofonista e il senso della scena costiera si disvela immediatamente: siamo nei pressi di un Jolly Mare dopo una session in studio con i Built to Spill.
Dopo queste suggestioni da cimitero marino, torniamo nella sala principale per quello che è l’headliner del festival, ovvero Yves Tumor. Il cantante americano propone un rock venato di industrial e immaginario anni ‘70 alla Thin Lizzy, anche se il suo outfit ricorda il Bello Figo dei tempi migliori. A colpire, più che la potenza e la qualità del set, è la sua presenza scenica. Pur non facendo granché, anzi solo camminando su e giù per il palco, il suo corpo emana una consapevolezza che associo immediatamente al concetto mitologico di rockstar. Il corpo di Yves Tumor è auratico, mostruoso, ogni movimento di un braccio o della testa provoca una reazione di pancia da parte del pubblico, che si accalca in prima fila per toccarlo, per averne un pezzo. Il set dura un’ora e mezza e poi ci spostiamo di nuovo sotto per chiudere questa prima serata con l’hyperpop carichissimo del ceco Toyota Vangelis. Il calore all’interno della sala e l’energia accumulata nei set precedenti si sprigionano in 40 minuti di suoni a 8 bit, autotune, distorsioni e bangers. Un misto tra acustico ed elettronico, tra umano e robot, un’immaginario gaming con l’adrenalina sempre al massimo.

Yves Tumor. Foto: Aleš Rosa

Dopo tanto headbanging c’è bisogno di smaltire, e così ce ne rimaniamo fuori dal Kino Šiška a chiacchierare finché non sale la stanchezza. Si torna a casa e non c’è ancora verso di dormire: chi ci ospita ha vissuto a Trieste, o è nato vicino al confine, chi ha lavorato lì poi a Belgrado con le sue kafane (“devi assolutamente andare”), si fa strada un senso di comunità sovranazionale, di cui Trieste, col suo orgoglioso e anacronistico isolazionismo, comunque è l’ultima propaggine occidentale (molti dei musicisti con cui ho parlato non hanno mai suonato più in là di Trieste) e con cui condivide aspetti linguistici, culinari, musicali, folkloristici.

Il secondo giorno per noi inizia sempre al Kino Šiška con il concerto di Oklou, artista francese che di solito propone un pop virato verso l’ambient, sullo stile della recentemente scomparsa Julee Cruse. Sul palco è accompagnata da una chitarra, oltre al synth d’ordinanza, la quale scandisce arpeggi emo che danno al cantato una profondità emotiva maggiore, suscitata anche dall’ottimo lavoro di light design. Sono 45 minuti di trance, tutti noi seduti sugli spalti del vecchio cinema, rapiti dai visual naturalistici e dalla voce ultraterrena della cantante, c’è chi piange, chi si abbraccia, chi fissa il vuoto. Ma bisogna muoversi, stasera di roba da vedere ce n’è tantissima e dobbiamo girarci tutta la città. Fortunatamente ci dà una mano l’app del festival, che ci notifica in tempo reale quali concerti stanno per iniziare, e dove.

Oklou. Foto: Nejc Ketis

Ci dirigiamo allora in taxi verso Stara Mestna Elektrarna, una centrale elettrica di fine ottocento rimodernata e ora adibita a museo e sala concerti. Nell’entrare, notiamo subito un profumo di incenso, acceso sul palco dalla cantante dei Deva, quartetto ungherese. L’idea, semplice e geniale, di aggiungere una dimensione olfattiva all’esperienza del concerto. All’inizio la cantante incita a ballare, e presto abbandoniamo i seggiolini per riversarci sotto il palco a ondeggiare su dell’elettronica ultraterrena. A questa base ritmica importante si aggiunge un sax (e per un paio di pezzi un flauto traverso) ma soprattutto la voce della cantante, con un outfit da Midsommar, che declama dei mantra folkloristici quasi atonali i quali rendono la musica straniante, ma stranamente rassicurante. Il fatto di incorporare linee melodiche e vocali di vecchie canzoni folk con basi elettroniche è un’operazione abbastanza frequente, mi viene detto (si veda anche la producer serba ma di stanza a Lubiana Kezz): non loop o sample, ma il dare nuova vita e traslare pezzi parte della propria identità culturale. Di sicuro uno dei live più coinvolgenti del festival. Successivamente, rimaniamo lì per assaggiare l’R’n’B e il neosoul dell’italiana di stanza a New York LNFDK, un ritorno alla realtà fatto di tempi dispari e atmosfere alla FKA Twigs.

Deva. Foto: Urška Boljkovac

È ormai mezzanotte quando andiamo verso l’epicentro del festival e della vita culturale di Lubiana, ovvero il Metelkova, una città nella città. Nato come quartier generale delle truppe austro-ungariche e in seguito jugoslave, questo spazio è stato squattato nel 1993 e da lì ha assunto la fisionomia di cittadella indipendente dove trovano luogo sale concerti, bar, associazioni culturali e no profit. L’urbanistica è quella di una cittadella militare, con baracche, piazzole dove negli anni si sono sedimentate opere di numerosi street artist. Oggi il Metelkova è l’unico caso di zona indipendente dalla legislazione comunale in una città che contava fino al 2021 un’altra esperienza simile, il Rog.

La prima tappa è al Channel Zero, uno dei 4 club presenti nell’area. Qui ci abbandoniamo alla techno del duo sloveno Warhorse: atmosfere alla Death Grips, synth distorti e drop vertiginosi. L’atmosfera nel piccolo club è bollente, e il volume davvero alto. Siamo quasi alla fine della serata ma ancora in vena di ballare, e allora ci trasferiamo, ancora tutti storditi, nel vicino Gala Hala, sala un pelo più grande, per continuare con i bergamaschi Planet Opal, altra grande sorpresa del festival, e la loro italo-disco riempita di bassi, acustica, vibrante ma impressionistica. Stanotte il festival chiude all’1 e 40, ma non c’è verso di tornare a casa: nella piazza della cittadella è tutto un ritrovarsi, ex coinquilini, compagni di band, amici d’infanzia e così via. Difficile non fare giorno e condividere un taxi per tornarsene a casa per altre due parole, e altra musica.

Foto: Lenard Lukšič

L’ultima giornata di festival inizia al Cankarjev Dom, gigante edificio simil-brutalista che ospita una quantità di eventi, da concerti a conferenze a mostre. I primi due set si svolgono in una sala circolare, con il palco in mezzo, stile teatro greco. E’ qui che veniamo cullati prima dall’hypnagogic pop del duo estone Vera Vice, poi dalle atmosfere dreamy dei locali Not Exactly Lost. Sono due concerti quieti, a basso volume, meditativi, dove riverberi e tastiere la fanno da padroni. Torniamo poi al Metelkova per l’esibizione di Niko Novak, leggenda underground locale trapiantata a Berlino. Il suo live è basso e voce, una voce profondissima che ricorda il Leonard Cohen degli anni ‘70. Il contesto è surreale: siamo nel piccolissimo Channel Zero, le chiacchiere intorno al bar vengono zittite dal pubblico stesso, quelli che sembrano distratti vengono fulminati dallo sguardo del cantante, che smette di suonare ogni volta che questo set acustico viene sovrastato da qualche chiacchiericcio. L’atmosfera in generale è di riverenza e rispetto verso questo grande vecchio che suona dei blues dolorosi nello stile dell’ultimo Johnny Cash. Tutta un’altra cosa in un locale adiacente, il Klub Gromka, leggermente più grande, che ospita i serbi Gazorpazorp, quartetto zoomer dal nome preso da Rick e Morty che provocano il bordello con un indie rock che guarda agli Strokes e ai Cure con una esuberanza scenica che è subito pogo. Siamo ormai nella celebrazione della giovinezza, quindi torniamo al Gala Hala dove ho modo di commuovermi con la emo trap dei .travnik da Maribor. Lil Peep, Brockhampton i numi tutelari di questi ragazzini che provocano un entusiasmo lacrimale (anche se i testi, come mi dice Natalija, la mia guida in questo blur infinito, non sono proprio il massimo dell’edificazione) in canottiera, polo e baffi improbabili.

Niko Novak. Foto: Aleš Rosa

Dal Metelkova passiamo al K4, storico centro della scena elettronica di Lubiana, per finire la serata. Ormai siamo stanchissimi, e nelle due sale comunicanti del club sotterraneo facciamo poco caso ai dj set di Katcha, Franjazzco, Fingers of God e dvidevat. Si ondeggia lentamente, qualche bpm di troppo riprova a farci tornare sul pezzo, ma notti di stimoli e di conversazioni si fanno sentire, forse è ora di andare a casa. Il tempo di accompagnare un’amica in un ostello in centro, sbagliare strada tre quattro volte, e si torna a casa. È l’alba, un ragazzo suona una chitarra elettrica sotto un H&M, il centro della città è un viavai di gente che se ne torna a dormire, impossibile pensare di vivere anche solo un momento senza qualche tipo di musica nelle orecchie.

Warhorse. Foto: Maša Gojić

Vivo a un’ora di macchina da Lubiana, nulla se penso che per arrivare a Venezia ci metto quasi il doppio. Lo shock culturale però di conoscere una realtà in cui non c’è assolutamente nessun confine tra locale e mainstream, ma anzi, le esperienze locali fatte di gruppetti, centri sociali, grassroots venues sono parte integrante del mainstream, di un’unità che celebra le differenze e le incoraggia. Questo il senso del MENT, la vetrina per innumerevoli esperienze sonore, ma anche organizzative, economiche e soprattutto umane che forse altrimenti rimarrebbero confinate in una dimensione, linguistica e di mercato, isolata e periferica. Da spettatore esterno, grande musica e persone stupende, e anche una lezione su come sia ridicolo e controproducente ragionare per “scene” e rivalità conseguenti. Il verde incombente all’alba del Tivoli Park fa da cornice al ritorno a casa, domani basta un’ora di macchina per cambiare totalmente contesto, per tornare a “casa”, ma certe strade sembrano le più familiari e vicine di sempre.

 

Foto di copertina: Nejc Ketis

Grazie a Natalija Gajić per il titolo

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