I migliori film del 2017

Ancore poche ore e anche il 2017 volgerà al termine. Accostarsi alla critica cinematografica significa affacciarsi su un universo di pensieri, correnti, opinioni spesso distanti anni luce tra loro. Per questa ragione invece di una classifica classica abbiamo deciso di proporvi una rassegna di titoli che ci hanno colpito mentre eravamo seduti comodamente al buio davanti alla magia di un grande schermo che s’illumina.

Elle – Paul Verhoeven (Francia)

È possibile parlare di Elle senza catalizzare ogni riflessione nella terribilmente fisica e affascinante interpretazione di Isabelle Huppert? Ma, soprattutto, è possibile parlare di Elle in poche righe?
L’ultima folle opera del regista olandese si apre con violenza: uno schermo nero da cui non vediamo, ma iniziamo a sentire gemiti di dolore. Una donna viene stuprata sul pavimento della propria casa, da un uomo che fugge subito dopo. Ma la reazione della donna è spiazzante: si rialza, non denuncia.
Elle è Michèle, un’importante e cinica manager di un’azienda produttrice di videogiochi; è lei il centro gravitazionale di una serie di personaggi che non possono far altro che orbitarle intorno, inevitabilmente attratti. Un teatrino pruriginoso e tragicomico di figure diverse, ambigue, mosso e scosso dal loro rapporto con la sessualità. E il risultato finale è un film che indaga le pulsioni umane con una satira sfacciata, uno schiaffo a una società borghese repressa e frustrata che non poteva passare inosservato. (Martina Neglia)


Jackie – Pablo Larraín (USA/Cile/Francia)

Primo film in lingua inglese per il quarantenne regista cileno, Jackie è non solo il racconto delle ore immediatamente successive all’omicidio di J.F.Kennedy ma, soprattutto, dell’incontro tra l’ex first lady e il giornalista di LIFE Theodore H. White a cui Jacqueline quasi detterà l’articolo capace di far restare suo marito, presidente per nemmeno tre anni, nella storia. Voluto fortemente da Darren Aranofsky, Jackie è un biopic sui generis, uno straordinario affresco, minimale, privato e pubblico, sul tema dell’eredità, della memoria e della costruzione del Mito. A dare sostanza cinematografica a tutto questo sono il corpo, la fronte, gli occhi, le labbra, la voce di Natalie Portman che ripaga in pieno la fiducia del regista con un’interpretazione semplicemente straordinaria. Con la splendida fotografia di Sergio Armstrong e le musiche di Mica Levi, Larraín sceglie un racconto frammentato che procede per flashback offrendo allo spettatore diversi piani di lettura tutti capaci di porre interrogativi rifuggendo dalle risposte. Ricordandoci, in un momento di grandissima attualità, il valore non negoziabile della verità storica. (Fabio Mastroserio)


Paterson – Jim Jarmusch (USA)

Paterson vive nel New Jersey, precisamente nella cittadina di Paterson, dove lavora come autista di autobus e divide la casa con la moglie Laura e il bulldog Marvin. La sua vita è quanto di più ordinario si possa immaginare: ogni giorno si sveglia, va al lavoro, guida lungo lo stesso percorso, porta fuori il cane, passa la serata al bar. Non c’è niente, nella sua vita, di poetico. Eppure. Eppure Paterson porta sempre con sé un taccuino che riempie di poesie, ispirato dall’amore per William Carlos Williams. E allora, improvvisamente, davanti ai nostri occhi l’universo si dispiega sotto una nuova luce e iniziamo a vedere la magia anche in una scatola di fiammiferi. Il film di Jarmusch, in concorso al Festival di Cannes nel 2016, è una piccola meraviglia tragica che ci fa riflettere sul valore di ogni nostra azione e sull’importanza di fare ciò che amiamo anche e soprattutto quando sembra non avere significato. (Veronica Ganassi)


Sole cuore amore – Daniele Vicari (Italia)

È un film disturbante, che conferma il talento del regista nel raccontare sentimenti e disagi sociali, nello scandagliare il quotidiano, l’ordinario. Nel caso di specie si tratta di un quotidiano figlio del nostro tempo, tra precarietà e sfruttamento del lavoro. Vicari segue la storia di due amiche Eli (Isabella Ragonese) e Vale (Eva Grieco): la prima – marito disoccupato e figli a carico – lavora senza sosta in un bar nel centro di Roma, percorrendo ogni giorno distanze chilometriche sui mezzi pubblici, dalla periferia al cuore della capitale. La seconda lavora come performer nei locali, legge tantissimo ed è ossessionata dalla madre che l’accusa della morte del marito. La narrazione è incentrata sulle loro corse, sui loro movimenti, sui loro pensieri, sulle espressioni del viso, su quello che non dicono ma covano. Se si incontrano per caso (il tempo è il loro peggior nemico), ritornano ragazzine e gioiscono per un passato lontano e pieno di speranze. Il presente è amaro e nel caso di Eli, fatale. Un film che presta attenzione ai non privilegiati, a chi in questa Italia sgangherata non ha voce. Un film che fa storcere il naso a chi non ha mai sofferto per emergere. Un film su quello che siamo diventanti senza accorgercene. (Marina Bisogno)


Star Wars – Gli ultimi Jedi (USA)

Il nuovo Star Wars ha suscitato anche stavolta perplessità in quantità pari agli entusiasmi. Con l’episodio VIII, The Last Jedi, da noi diventato Gli ultimi Jedi risolvendo l’ambiguità nel titolo, Rian Johnson prosegue nel cammino intrapreso da J. J. Abrams aggiungendo un altro tassello a metà tra il reboot e il revival, piuttosto che provare a portare la nuova trilogia verso direzioni inaspettate. Ma oltre all’ammiccamento nostalgico c’è tanta sostanza. Non è solo grazie al magistrale contributo di Mark Hamill nei panni che l’hanno eternato come Luke Skywalker, che questo secondo capitolo appare perfino più convincente del precedente. Lo scontro galattico che diventa generazionale quando a incrociare le spade sono Rey e Kylo Ren, la prima a sostegno della tradizione Jedi e il secondo a rappresentare il nuovo Primo ordine, ci incolla allo schermo per oltre due ore e mezza. Si rimane disarmati di fronte al coraggio e alla determinazione che Daisy Ridley sa infondere al suo personaggio, almeno quanto di fronte alla capacità di Adam Driver di mettere in scena le complessità dell’antagonista senza ridurlo a una macchietta, come a tratti succedeva nell’episodio VII. É tuttavia il senso di meraviglia che Johnson restituisce al film che determina il suo successo, che ci coinvolge al punto da lasciare la sala pronti a prendere le armi in nome della Resistenza. Il mistero più grande, a conti fatti, è come sia la Disney a consegnare al cinema un messaggio così schiettamente anti-imperialista. (Francesco Chianese)


Vi presento Toni Erdmann – Maren Ade (Germania)

Sorpresa del cinema tedesco, Vi Presento Toni Erdmann, è l’unico film nella storia dell’European Film Awards a essersi aggiudicato tutti e cinque i premi principali, nonostante il suo peso di lungo-metraggio, lunghissimo, per la precisione: 162 minuti di quella che qualcuno ha chiamato “black comedy”, ma che in realtà è ben poco comedy e ancor meno black, quanto piuttosto dolce-amara e surreale. Una sottintesa quanto feroce critica sugli effetti depersonalizzanti della globalizzazione che consente al vero dramma (e alle vere risate) di scoppiare nella reale, grottesca quotidianità di un padre inadeguatamente burlone che tenta di recuperare i rapporti con una figlia forzatamente in carriera. La bravura della regista sta proprio nell’equilibrio con cui riesce a stare sul filo del ridicolo, senza permettere a nessuno dei due personaggi di diventare la caricatura di se stesso. In un carnevale di dita mozzate e tacchi dolorosi, denti falsi e sorrisi di circostanza, Toni Erdmann pian piano trasforma infinito imbarazzo in profonda empatia e bizzarre stranezze in (nemmeno troppo) rassegnata accettazione, lasciandoci la speranza di svegliarci, una mattina, davanti a qualcosa di migliore rispetto al giorno prima. (Simone Fiorucci)


La La Land – Damien Chazelle (USA)

Anticipato da 7 Golden Globe vinti su 7 nomination, dall’aura dei record e dal clamore internazionale – forte di premi di ogni sorta, dalla Mostra del Cinema di Venezia alla Notte degli Oscar – il 26 febbraio 2017 abbiamo effettivamente visto il film del miracolo: La La Land di Damien Chazelle. Emma Stone e Ryan Gosling sono i protagonisti del blockbuster 2.0, il musical-non-musical che promette di riunire magicamente pubblico e critica, incantando perfino i più intolleranti alla formula sogni-amore-balletti.  La La Land è il film dell’anno, forse del decennio.  Non sono solo i numeri a farne il nuovo Titanic: se il colossal degli anni ’90 racconta una storia di emancipazione e riscatto, rappresentando con un amore impossibile il sogno e l’incubo americano, La La Land è il perfetto upgrade per il nuovo millennio. Sebastian sogna il Jazz, Mia sogna Hollywood: Los Angeles è lo spettacolo continuo di aspirazioni che si realizzano o s’infrangono. Per qualche settimana, City of Stars è la canzone che tutti sembravamo cantare, indipendentemente dall’essere innamorati, infastiditi o indifferenti al film. Un motivetto carico di malinconia, immagine del vuoto lancinante di due o tre generazioni. (Marta Zoe Poretti)


Blade Runner 2049 – Dennis Villeneuve (USA)

Disseppellire i cult è un’attività delicata, in equilibrio tra il rispetto gentiloniano delle istituzioni e lo spirito dissacrante di chi ha fatto del postmodernismo il suo credo. E Harrison Ford sembra averci preso gusto: dopo Indiana Jones e Rogue One, eccolo ritornare – imbolsito – sul luogo del delitto (con implicazioni psicanalitiche da non sottovalutare) in questo Blade Runner 2049 diretto da Jacques Villeneuve. Che si conferma come il più intelligente e ambizioso regista di questi anni, come Scott lo era negli ’80. Mantenendosi fedele alla filosofia dell’originale (i tempi lunghi, l’attenzione maniacale e visionaria al dettaglio architettonico, i dialoghi così poco cinematografici) il canadese aggiunge nuove suggestioni, affronta nuovi temi, più attuali. Rimpiazzando Vangelis con Zimmer, aggiungendo un asettico Ryan Gosling, ma facendo qualcosa di più. Confezionando un vero e proprio Manuale del Remake di 163’, fondamentale in questa epoca cinematografica (e non) che trova la sua summa nel duello, in un casinò abbandonato, tra il vecchio (Ford) e il nuovo (Gosling). Circondati dagli ologrammi di Elvis e Liberace, da un passato che non sembra volersi arrendere così facilmente, come il vecchio Han Solo. (Riccardo Di Leo)


Mudbound – Dee Rees (USA)

Mundbound è un film diretto da Dee Rees, adattamento cinematografico del romanzo Fiori nel fango. Rees con la sua opera è riuscito a portare in scena il silenzio, la paura, l’oppressione, la guerra, ma anche l’amore, l’uguaglianza, il coraggio, facendone un’opera sbalorditiva, di un’inarrestabile forza e meraviglia intrinseche. Il film si sdoppia al principio in due linee narrative, mostrandoci la vita in guerra e quella nei campi di un Mississippi rude e violento. Queste due sfere, geograficamente distanti, vanno a convergere nello stesso ambiente ostile confondendosi, a volte, e mischiandosi in un’unica atmosfera. Fino a unirsi al momento della vittoria e del ritorno in patria e con il paradosso di non sentirsi a proprio agio nella terra natia, più di quanto lo si è stati nei territori di guerra. Dee Rees ha creato un abisso, un abisso di sentimenti e di storia, di uomini e di un’incredibile bellezza. (Francesca Pasculli)


Personal Shopper – Olivier Assayas (Francia/Germania)

Più di un film di quest’anno sfugge a veloci categorizzazioni, Personal Shopper rientra tra questi. Kristen Stewart (nella sua performance migliore) è Maureen, giovane americana a Parigi, dove corre da un negozio all’altro pur di soddisfare i capricci di una star che incontra solo raramente. Ma la missione di Maureen nella capitale francese è anche quella di stabilire un contatto spiritico con il gemello deceduto da pochi mesi. Incastrata in un andirivieni spersonalizzante, un giorno inizia a ricevere messaggi da uno sconosciuto. Il cineasta francese ci consegna così un’opera misteriosa, dai tratti di un thriller; una ghost-story terribilmente attuale in cui ci s’interroga, in un mondo sempre più connesso e strabordante di avatar, quanto sia realmente possibile un contatto. E, soprattutto, chi siano realmente i fantasmi oggi. (Martina Neglia)


La tartaruga rossa – Michael Dudok de Wit (Francia, Belgio, Giappone)

Vincitore del Premio Speciale nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2016. La Tortue Rouge, prodotto anche dallo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki, è un film di ottanta minuti, privo di dialoghi, se non qualche grido e qualche imprecazione lanciata dai suoi protagonisti. Un naufrago, un’isola, una tartaruga, una donna. Dudok de Wit costruisce scena dopo scena, come in una successione d’incantevoli acquerelli, una storia che è, insieme, favola senza alcuna pretesa di verosimiglianza e parabola poetica della condizione umana. Tra paesaggi di rara bellezza che sembrano scorrere sullo schermo come fossero veri, Dudok de Wit scava con incredibile levità dentro l’animo umano, dentro le sue ferite, dentro la solitudine dell’uomo restituendo un film che è un’ode alla vita, alla bellezza, all’amore, ai rapporti umani, alla natura, al mare, al mondo animale, all’armonia. Non tace, non nasconde la violenza della natura, né il dolore e la morte ma, senza bisogno di alcuna parola, trasmette fortissimo, come raramente si è visto sul grande schermo, un senso straordinario di pace. (Fabio Mastroserio)


Il mio Godard – Michel Hazanavicius (Francia)

Quando ci si cimenta con un’opera biografica il rischio di non riuscire a mantenere la giusta distanza è sempre in agguato. Il filo che divide l’adulazione dalla critica è sottilissimo e rimanervi in equilibrio non è facile. Nel momento in cui ha scelto di dirigere Il (suo) mio Godard, questo, Hazanavicius, lo sapeva bene. Sapeva anche, però, che a lui Godard non ha mai suscitato l’ammirazione e il timore reverenziale di cui tutti, suoi colleghi compresi, sembrano essere vittime e ciò non poteva che giocare a suo favore. Nell’approcciarsi al film, interpretato da un irriverente e stempiato Louis Garrell nel ruolo del protagonista, il regista francese fa quindi di questa visione anomala un punto di forza grazie al quale riesce a raccontare la storia dell’uomo dietro al mito, evitando il temutissimo effetto romanzo. Il risultato è che ne Il mio Godard vediamo molto di più di quello che ci saremmo aspettati: c’è la Francia, l’Italia, lo spirito degli anni ’60, la moda, l’amore ma soprattutto un mai così umano Jean-Luc Godard. (Veronica Ganassi)


Nico 1988 – Susanna Nicchiarelli (Italia/Belgio)

Con il premio della sezione Orizzonti alla 74a Mostra del Cinema di Venezia, gli applausi e le lacrime del pubblico, la scommessa di Susanna Nicchiarelli e Rai Cinema può dirsi vinta: Nico 1988 è un progetto ambizioso, complesso come gli ultimi mesi di vita di Christa Päffgen. Musa e Chelsea Girl di Andy Warhol, Femme Fatale d’elezione per The Velvet Underground, il film racconta Nico nell’ultimo circuito di ascesa e caduta, dopo il successo di The Marble Index; quando ormai ha perso tutto e rifiuta, sprezzante, il minimo accenno a Lou Reed e la Factory. Costruito come un “biopic al contrario”, sempre in bilico tra realtà e finzione, il film di Susanna Nicchiarelli colpisce al cuore anche i fan più devoti, quelli che per Nico (e i suoi demoni) hanno un amore quasi sacrale. Basta il primo live di Trine Dyrholm (letteralmente più vera del vero): già dalle prime note di All Tomorrow’s Parties ritroveremo sguardo, voce e mistero di Nico, tra le più folgoranti icone del novecento. (Marta Zoe Poretti)


Ritorno in Borgogna – Cédric Klapisch (Francia)

Incentrato sulla metafora tra i tempi di fermentazione del vino e quelli che nella vita occorrono per assumere consapevolezze, per far lievitare i sentimenti, è un film che scalda il cuore proprio come un buon vino. Gioca sulla fotografia, sulla rappresentazione delle stagioni, e mette al centro la natura statica eppur vivace della Borgogna, regalando allo spettatore evasioni e introspezione. Tutto avviene attraverso lo sguardo di Jean (Pio Marmaï), primogenito di un imprenditore vitivinicolo che cresce in campagna, imparando fin da bambino la durezza e la magia di produrre vino e di godere di spazi naturali. Jean sviluppa un’avversione per la tenuta di famiglia e, a causa del rapporto malandato col padre, scappa fino in Australia, dove non riesce a mettere radici, nonostante si innamori di Alicia. Eventi familiari lo riconducono a casa: qui fa i conti con quello che ha mollato, con la tradizione della sua famiglia, con i suoi fantasmi. Con il rientro di Jean, intelligente e ironico, inizia anche per i fratelli Juliette e Jeremie, quasi per contagio, una rivoluzione personale. Klapisch ci ricorda che saper attendere è una virtù e che vivere non è un’equazione algebrica, ma una corrente, un ciclo, spesso sorprendente, specie se di mezzo c’è l’amore, energia incontrollabile e capace di dare senso a molti eventi. (Marina Bisogno)


Good Time – Ben Safdie (USA)

Il film di Ben Safdie è un serio pretendente agli Oscar di quest’anno, e di per sé non è un bene: vi ricordate Argo o The Artist? A differenza loro, però, Good Time è un film che ha qualcosa di nuovo da dire. E poco importa se questo qualcosa ha un sapore familiare, conosciuto: è normale e giusto che sia così, oggi (vedi Blade Runner 2049). A livello visivo, la camera a mano fuori fuoco è puro Michael Mann; la bombastica colonna sonora di Oneohtrix Point Never non avrebbe sfigurato in Drive; la sceneggiatura potrebbe essere uscita da un cassetto di casa Scorsese trent’anni fa. Ma, l’abbiamo detto: poco importa. È la combinazione aleatoria di tutti questi elementi a funzionare, e bene, in Good Time, lubrificata dalla prova di Robert Pattinson, perfetto nel ruolo di “rapinatore della domenica”, e di Ben Safdie, il fratello con problemi che per tutto il film si cercherà di far evadere. E, soprattutto, da dei titoli di coda stellari, mai così funzionali alla storia, in cui le immagini e la voce di Iggy Pop riescono a raccontare, meglio di mille parole, l’epilogo del film, e, forse, della vita di due fratelli. (Riccardo Di Leo)


Manchester by the sea – Kenneth Lonergan (USA)

Scritto (Premio Oscar 2017 alla miglior sceneggiatura) e diretto da Kenneth Lonergan che, con un’incredibile coerenza, ha trasportato sul grande schermo il freddo glaciale rappresentato dal mare che bagna le coste del Massachusetts e dai personaggi che in questi luoghi prendono vita, Manchester by the sea è il racconto di un dramma a tutto tondo, privo di ogni cliché e libero da ogni allegria forzata. Se dovessi rappresentare questo film graficamente traccerei una linea retta, sempre uguale, dotata di un’incredibile fragilità, come la fragilità dell’essere umano e del destino che colpisce e atterra le vite del film, disgrazia dopo disgrazia. Una fragilità tenera e delicata della quale prendersi cura, da cullare e per cui cantare una malinconica ninna nanna. (Francesca Pasculli)


Detroit – Kathryn Bigelow (USA)

Non è giusto rinchiudere e analizzare un film solo in un’ottica politica, ma c’è un’urgenza in Detroit, una violenza comunicativa, che non può che riportare all’America trumpiana di oggi, alla discriminazione di colore non ancora seppellita. La Bigelow riprende gli eventi degli anni ’60 nella città del Michigan, dove le proteste della comunità afroamericana furono duramente represse dalle forze armate. L’evento che copre buona parte della durata del film vede il suo svolgimento nell’hotel Algiers, dove vennero brutalmente uccisi tre giovani di colore. La Detroit che la Bigelow ci mostra ha le sembianze di un luogo di guerra. Esplosioni, spari, macerie. Non manca niente. Detroit è un film potente, troppo potente, perfettamente giostrato tra musica e montaggio. In grado di sbattere il telespettatore con le spalle al muro, metterlo a disagio, di fronte alle colpe non ancora scontate della Storia. Detroit è un film necessario. Si esce dalla visione profondamente indignati ed è giusto così. (Martina Neglia)


L’infanzia di un capo – Brady Corbet (UK/Francia/Ungheria)

Ispirato liberamente a un racconto di Jean Paul Sartre, Premio Orizzonti alla miglior regia al Festival di Venezia 2015, L’Infanzia di un capo, opera prima dell’attore Brady Corbet, è il ritratto formale, asciutto e allo stesso tempo attraversato da una tensione costante e a tratti insostenibile, dell’infanzia di un futuro leader nazista. Ambientato nel 1919, è la storia divisa in tre parti degli scatti d’ira di un bambino americano (Tom Sweet, sarebbe piaciuto a Visconti) costretto a vivere in Francia dove suo padre sta lavorando al Trattato di Versailles. Senza soluzione di continuità Corbet ci porta per mano dentro la costruzione di un ego viziato e dispotico, stretto nella morsa di una famiglia autoritaria e di una madre distante, metafora non velata delle ragioni oscure dietro l’avvento del nazionalsocialismo. Si segnalano Stacey Martin nel ruolo di una giovane istitutrice, oggetto del desiderio del futuro leader e Robert Pattinson che cerca, con successo, di affrancarsi dalla popolarità pop di Twilight. (Fabio Mastroserio)


Mal di pietre – Nicole Garcia (Francia/Belgio)

Dal romanzo di Milena Agus, la regista Nicole Garcia firma un perfetto adattamento cinematografico con tre protagonisti in stato di grazia: Marion Cotillard, Alex Brendemühl e Louis Garrell. Non certo un’opera sperimentale destinata a cambiare la storia del cinema, eppure un film destinato a stupirvi con qualche vera emozione. Caso raro di melodramma concreto, credibile, totalmente privo delle derive più irritanti e sentimentalistiche generalmente associate al melò. Marion Cotillard regala un personaggio impossibile da dimenticare, confermando (se mai fosse necessario) di essere tra le più grandi attrici al mondo. La sua Gabrielle, ragazza “malata di nervi” negli anni ’50, cresciuta in un paesino nel Sud della Francia, causa d’imbarazzo per la famiglia, ha solo due scelte: il manicomio o il matrimonio con un operaio fuggito dalla Spagna. Un uomo che non conosce, non possiede nulla e per questo è l’unico candidato possibile. Quel marito silenzioso saprà rivelarsi invece rispettoso e amorevole, anche quando lei perderà la testa per un giovane tenente, ferito in guerra e forse prossimo alla morte. Non riveleremo oltre: Mal di pietre è un film solido, perfino conturbante; capace di colpire anche chi è poco incline al genere. (Marta Zoe Poretti)


Baby Driver – Edgar Wright (USA/UK)

Se La La Land fosse un film romantico e, soprattutto, contemporaneo, si chiamerebbe Baby Driver. Se l’insopportabile polpettone citazionista di Chazelle fornisce un’autoassoluzione all’egotismo carrieristico dei 30-40enni, il film di Edgar Wright (forse l’ultimo in cui vedrete Kevin Spacey dopo la damnatio memoriae a lui riservata) è una vera favola romantica dei nostri tempi. In cui l’amore ha dei tratti di Asperger, come quelli del protagonista, e spesso nasce dall’intrecciarsi di culture musicali dettagliatissime, tra la Debra di Beck, che lavora da JC Penny, e la Debra cantata da Marc Bolan, che invece assomiglia a una zebra. Alle atmosfere del film precedente – Scott Pilgrim Vs. The World – Wright aggiunge una bella dose di azione e inseguimenti in auto. E, come in ogni romanza che si rispetti, l’eroe andrà a riprendersi la sua bella sulle note di “Bellbottoms” dei Jon Spencer Blues Explosion, a tutto volume, in derapata. Questo significa essere innamorati oggi, non Casablanca: fan di Woody Allen, fatevene una ragione. (Riccardo Di Leo)


Dunkirk – Christopher Nolan (UK/USA/Paesi Bassi/Francia)

Non poteva mancare in questa classifica uno dei film più discussi dell’anno, capace di provocare le più disparate e differenti opinioni. Dunkirk, ultima impresa cinematografica di Christopher Nolan, è un progetto a cui il suo autore ha lavorato più di venticinque anni prima di essere portato sul grande schermo. Dialoghi ridotti all’osso affinché siano solo le sue immagini a comunicare con noi spettatori. Con la splendida fotografia di Hoyte Van Hoytema e la colonna sonora di Hans Zimmer, Dunkirk riesce a raccontare una realtà storica con un punto di vista e un modo assolutamente innovativi per il genere bellico, meritando appieno di essere nella nostra classifica. (Francesca Pasculli)


L’altro volto della speranza – Aki Kaurismaki (Finlandia)

A sei anni da quel gioiello che è Miracolo à Le Havre, Aki Kaurismaki ritorna dietro la macchina da presa per raccontare ancora uno scorcio della contemporaneità, con la levità che lo caratterizza.
Siamo a Helsinki, ai nostri giorni. I due protagonisti principali sono figli del nostro tempo: Khaled e la sua fuga da un luogo dannato come è oggi la Siria; Wilkstrom, con un matrimonio appena abbandonato e un ristorante da riportare in vita. Kaurismaki ritorna a puntare l’obiettivo sugli ultimi di questa società, con l’urgenza di narrare il presente. E non importa se il suo cinema ha più musica che dialoghi, più primi piani che spiegazioni; se la fotografia e l’ironia disarmante di alcune scene si avvicinano più alle dinamiche di una fiaba che alla violenza di una denuncia. Il messaggio non rischia di essere frainteso: è ancora possibile sperare in gesti di umanità, inattesi e non richiesti, capaci di salvarci e riscrivere un destino. (Martina Neglia)


Gatta Cenerentola – Rak, Cappiello, Guarnieri, Sansone (Italia)

Ispirato all’omonima fiaba di Giovan Battista Basile e all’opera teatrale del maestro Roberto De Simone, Gatta Cenerentola porta sullo schermo un musical gangster ambientato nella nave Megaride ancorata al porto di Napoli, città fantasma ridotta a scenario dove l’aria è attraversata costantemente da frammenti che ne rendono opaca l’aria. Il sogno tecnologico dell’imprenditore Basile naufraga nella stretta mortale della camorra in un inganno ordito dal delinquente Salvatore Lo Giusto e dalla sua amante Angelica Carannante. La piccola Mia diventa la nuova Cenerentola, creatura delicata imprigionata dentro lo spettro della Napoli che fu e dei ricordi che, come fantasmi, la aiuteranno a crescere. Se irrita, in alcuni punti, il rimando costante a una Napoli criminale come unica possibile narrazione di una città dai mille volti non si può però sfuggire all’incanto di una seconda prova che nonostante i limiti del budget brilla per creatività, ricchezza di fantasia, di stili, di scelte tecniche e artistiche regalando al pubblico un immaginario difficile da dimenticare. Immense le prove in doppiaggio di Massimiliano Gallo, Maria Pia Calzone e Alessandro Gassmann. (Fabio Mastroserio)


Billy Lynn, un giorno da eroe – Ang Lee (USA/UK/Cina)

Con il primo film nella storia del cinema girato interamente in 4k a 120 fps, Ang Lee mira al “profondo del racconto”, restituendo emozioni e sensazioni con un’onestà intensa e cruda, cui forse non siamo più abituati. Billy Lynn (Joe Alwyn), è un diciannovenne scaraventato dalla provincia del Texas al fronte iracheno. You Tube ne ha fatto una star: nel video, che ora è orgoglio nazionale, sfida fuoco e fiamme per salvare il Tenente Shroom (Vin Diesel). Ora Billy e la sua Bravo Squad sono in licenza, o meglio sono i protagonisti di un grandioso Victory Tour. Interviste, spettacoli, fuochi d’artificio, promesse di diritti cinematografici milionari, sexy cheerleader e perfino le Destiny’s Child: niente sembra liberare il ragazzo dal loop atroce dello stress post traumatico. Billy Lynn è un film di ragazzi che non sanno neanche perché combattono, assediati dal clamore di un pubblico che non si chiede più dove siano quelle “armi di distruzione di massa”.  Al massimo, qualcuno chiederà se la stanno vincendo la guerra in Iraq: nessuno di loro saprà cosa rispondere. È forse per questo trascurabile, drammatico dettaglio che Billy Lynn di Ang Lee è stato così platealmente ignorato negli Stati Uniti: di certo noi non vi consigliamo di fare lo stesso. (Marta Zoe Poretti)


Lady Macbeth – William Oldroyd (UK)

Tratto dal racconto “Lady Macbeth del distretto di Mcensk” dello scrittore Nikolaj Leskov, trasposto da Oldroyd nel nord dell’Inghilterra di fine ottocento, racconta di una giovane donna (interpretata da una incredibilmente intensa Florence Plugh) data in moglie al figlio di un ricco proprietario terriero. Ignorata dal legittimo sposo, vessata dal suocero, coglierà il momento propizio per la ricerca di una libertà che le condizioni del suo tempo le vietano. Sarà una libertà sessuale, d’amore, di vita cui dovrà pagare un prezzo altissimo. Come nell’eroina shakespeariana anche Catherine vedrà sporcarsi le sue mani di sangue ma senza rimpianti né rimorsi. La regia segue il suo personaggio, facendosi dura, formale e affidando la bellezza alle immagini curate da Ari Wegner. Florence Plugh è bravissima nel portare sul suo volto e sul suo corpo tutto il peso di una vita da reclusa, dell’immobilità cui è costretta per poi lasciarsi illuminare dai colori del desiderio, della passione e della violenza consegnandoci un ritratto convincente di una donna, a un tempo, perfida e innocente di rara sensualità. (Fabio Mastroserio)


Il cliente – Asghar Farhadi (Iran/Francia)

Premio Oscar 2016 come Film Straniero, miglior sceneggiatura e miglior attore al Festival di Cannes 2016, Il Cliente (The Salesman) continua il percorso di ricerca e di analisi con cui Farhadi racconta la società iraniana. Liberamente tratto da Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller, che i protagonisti recitano durante lo svolgersi dell’azione, mantiene una struttura fortemente teatrale.  Ennesimo spaccato di vita nella società borghese di Teheran, vede protagonista ancora una coppia, felice stavolta, che entra in crisi per un’improvvisa aggressione. Ben presto la sete di giustizia del marito (il bravissimo Shahab Hosseini) si rivelerà spia di una società maschilista e violenta cui fa da contraltare la delicatezza, il senso d’instabilità e d’impotenza ma anche la forza del coraggio e del perdono racchiusi nella recitazione di Taraneh Alidoosti. Su tutto domina l’atmosfera di Teheran tra strade affollate, palazzi pericolanti e un senso costante di cambiamento. (Fabio Mastroserio)


Song to song – Terrence Malick (USA)

Song to Song, ambientato nella scena musicale di Austin che Malick si compiace di mostrare con sguardo autoriale, lontano dalla sintassi documentaristica degli eventi musicali, è il racconto di un triangolo amoroso che procede per immagini e voice over, frammenti di spazio, d’immagini e di tempo che si mescolano a realizzare un intricato affresco che usa diverse tecniche di riprese, comprese GoPro e deformazioni varie. Malick rinuncia ancora una volta non a una trama ma alla sua messa in scena, lasciando indizi, frammenti d’idee che restano sospesi dentro i pensieri a voce alta di personaggi che si consumano tra paure e speranze, desideri e bassezze. È un continuo perdersi e ritrovarsi, nella propria vita e in ciò che si vuole avere e forse non si desidera davvero ottenere. Song to Song esaspera i tratti emersi con Tree of Life: il montaggio esasperato, l’assenza di dialoghi, l’esilità della trama contrapposta all’eccesso di temi che si vorrebbero trattare risultando a tratti, più che ermetico, superficiale. Eppure, allo stesso tempo, è un inno complesso alla fragilità umana, al bisogno di perdonare ma anche alla legge inviolabile dell’attrazione fisica e a quella, più profonda, dei sentimenti. (Fabio Mastroserio)


Il Padre d’Italia – Fabio Mollo (Italia)

Paolo è un ragazzo omosessuale che lavora a Torino, portandosi sulle spalle tutto il peso della fine di un rapporto importante. Mia una ragazza al sesto mese di gravidanza che gli sviene tra le braccia una sera in discoteca. Da quel momento inizieranno un viaggio tra Asti, Roma, Napoli e la Calabria in cui impareranno a conoscersi e a immaginare una vita diversa unendo due mondi apparentemente lontani. Il padre d’Italia è un road movie che tratta in maniera delicata i temi dei diritti civili affidandosi a una coppia di attori in stato di grazia: Luca Marinelli è un ragazzo spaventato dalla vita che trascina nei suoi occhi grandi tutta la stanchezza di doversi nascondere, Isabella Ragonese una ragazza che alle sofferenze prova a rispondere con un sorriso smagliante e una luce che l’avvolge. L’uno cerca la responsabilità, l’altra sembra sfuggirle. Sarà un incontro e un viaggio che cambierà per sempre la loro esistenza. (Fabio Mastroserio)


A Ciambra – Jonas Carpignano (Italia/Brasile/Francia/Germania/USA/Svezia))

Presentato alla Quinzaine des Réalizateurs al Festival di Cannes del 2017 e diretto dal trentatreenne regista italoamericano Jonas Carpignano, la Ciambra deve il suo nome alla comunità rom di Gioia Tauro, in Calabria. Qui seguiamo, come in un film neorealista aggiornato ai tempi contemporanei, la vita di Pio Amato, giovanissimo zingaro, che si muove dentro a un romanzo di formazione tra la sua famiglia rom/calabrese, piccoli boss italiani e la comunità ghanese che lo accoglie come un piccolo amico. Sullo sfondo ndrangheta, furtarelli e traffici più grandi che lo costringeranno a crescere in fretta e a fare scelte (o a subirle) in un mondo dove sono fortissimi i legami e le identità.  Candidato dell’Italia agli Oscar, non esente da critiche rispetto alla veridicità della vita della Ciambra, è un film che però si lascia apprezzare per uno sguardo mai distaccato sull’infanzia difficile e per l’approccio pasoliniano alle realtà marginali delle periferie ma anche per brevi oasi di poesia onirica e una capacità di racconto da Nuova Hollywood (non a caso tra i produttori esecutivi c’è nientemeno che Martin Scorsese). (Fabio Mastroserio)

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