Polvere e Pallone: la prima volta in Brasile

Bisogna partire dalla polvere, quella scura, che non si vede, ma che poi resta sulle dita, quella delle periferie ancora sterrate, quella mischiata con la sabbia a pochi passi dal mare. Bisogna partire dalla polvere per capire il pallone, specialmente se in Sudamerica, in Argentina come in Brasile. Perché è in quella polvere che il gioco del pallone rinasce ogni volta, anche per quei ragazzini a cui il mondiale prepotente di qualche anno fa ha tolto un po’ di terrà e un po’ di libertà e anche per quelli rinchiusi e torturati nei sotterranei di Buenos Aires nel 1978, mentre la loro squadra diventava, (poco limpidamente per la verità), Campione del Mondo e vanto per il sanguinario regime dittatoriale del generale Videla. Oggi però vogliamo raccontare la prima volta che tutto il mondo del calcio (o quasi tutto) andò proprio in Brasile per una competizione mondiale, perché ci sono tante storie in quella storia che vanno un po’ rispolverate.

Era il 1950, il secolo scorso veniva tagliato a metà come una mela, mentre un’altra polvere, quella delle bombe e delle città distrutte, andava diradandosi agli occhi di un’umanità sofferente ai quattro angoli del pianeta. Il paese sudamericano fu l’unico candidato e così una manciata di città, Belo Horizonte, Curitiba, Porto Alegre, Rio de Janeiro e San Paolo, dopo dodici anni di pausa forzata, si ripresero il pallone. Il Brasile come paese ospitante e l’Italia come detentore dell’ultimo titolo assegnato, vi presero parte di diritto, ma la tragedia di Superga, che in un attimo privò tutti del Grande Torino e di gran parte della nazionale, segnò necessariamente quella avventura azzurra. Le storie nascoste nelle pieghe di questo mondiale sono surreali, drammatiche, divertenti ma tutte incredibilmente reali. Già la composizione della griglia di partenza, tra rinunce e ripescaggi narra di queste storie per certi versi meravigliose.

Nazionale indiana a piedi scalzi

Avrebbe dovuto esserci l’India, che poco prima dell’inizio del torneo fu squalificata, poiché non fu concesso ai propri calciatori di giocare a piedi nudi, come invece loro erano soliti fare. La Scozia, qualificata come seconda nel girone britannico, tenne fede al suo proposito di partecipare solo se qualificata come prima, e diede forfait. Germania e Giappone, su cui gravavano le responsabilità del conflitto bellico non furono proprio invitate. L’Argentina pare invece che non partecipò solo per invidia nei confronti del Brasile ospitante. Sebbene a partire da presupposti drammatici, una delle storie più divertenti riguarda proprio la “marcia di avvicinamento” della ciurma italiana, infatti, angosciati dall’incidente aereo che costò la vita a tutti i calciatori e lo staff del Torino, dirigenti e giocatori decisero di andare in Brasile via mare, in una traversata di due settimane che regalò a tutti un’ottima abbronzatura ma al contempo un calo muscolare a causa dell’impossibilità di allenarsi regolarmente. Ad alleviare la sofferenza fisica ci furono però i nuovi palloni di cuoio che abbandonarono i laccetti delle cuciture che lasciavano spesso i segni sulla fronte dei grandi colpitori di testa e a tutela del regolamento fu rafforzata la truppa di arbitri inglesi, ritenuti i migliori, dopo le polemiche delle ultime competizioni.

E poi c’è l’incredibile storia di Ottorino Barassi, ingegnere napoletano all’epoca vice presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio, che durante l’occupazione nazista di Roma, città in cui viveva, ebbe l’intuizione di ritirare dalla Banca d’Italia quella Coppa che tutti i calciatori desiderano alzare almeno una volta nella vita. L’Italia infatti la custodiva quale ultimo vincitore del 1938, e per paura che fosse razziata, come tanti altri beni, dai nazisti, la ritirò e la nascose in una scatola di scarpe sotto il suo letto, salvando il simbolo, il trofeo e il sogno di tanti ragazzini. In quel lasso di giorni fu svelata anche “l’ottava meraviglia del mondo”, come la definì Jules Rimet, (dirigente della Fifa a cui fu intitolata la Coppa), ovvero il Maracanà, uno stadio come non se ne erano mai visti prima, ufficialmente per 155 mila spettatori , ma pare ne arrivò a contenere anche 200 mila, in quel memorabile atto finale del torneo. Tra novità e certezze, dunque il torneo poteva avere inizio.

L’incredibile storia di Alcides, Obdulio e Juan Alberto

Maracanà

Lo stadio è pieno, la palla è al centro. Anzi no, la palla non ancora, il mondiale è domani. Il 23 giugno del 1950, infatti, il giorno prima della fase finale, il Maracanà apre le porte al pubblico per farsi ammirare. Questa giornata per molti brasiliani sarà memorabile, anche se non quanto l’atto finale che vivranno su quegli stessi spalti qualche settimana dopo. Memorabile però questa inaugurazione lo fu per l’arcivescovo di Rio, che per raggiungere la tribuna si trovò stretto tra la folla festante e per farsi strada “cominciò a menare sganassoni a destra e a manca”. Amen.

Come stiamo imparando a capire tante storie incredibili prendono forma anche fuori dal campo e talvolta nelle sue immediate prossimità. Fu così che il romagnolo Giovanni Galeati, arbitro di Jugoslavia- Svizzera, posticipò l’inizio della partita di un quarto d’ora ordinando di rimettere le bandierine ai quattro angoli del campo e di rimuovere la cornice di sedie che circondava il terreno di gioco a stretto contatto con le fasce laterali. Anche in un’altra partita si attese più di un quarto d’ora per vedere in campo l’undicesimo giocatore della Jugoslavia, temutissima dal Brasile che l’affrontava. Salendo le scale d’ingresso al terreno di gioco, il talento dell’est Rajko Mitic, si ferì alla testa battendo contro una traversa di ferro. L’arbitro non volle posticipare l’inizio e si cominciò dieci contro undici, fino al ventesimo che si pareggiarono i conti. Intanto il Brasile era in vantaggio ma Mitic lo seppe solo a fine primo tempo. Protagonista di questa edizione lo fu anche la stampa, brasiliana e inglese in particolare. “Inghilterra – Usa 10-1” , riportava un giornale inglese, modificando quanto riportato da oltre oceano e cioè lo 0-1 , pensando a un errore di battitura e non mettendo minimamente in conto che la nazionale dei Tre Leoni avesse potuto perdere per uno a zero contro gli Stati Uniti. Più aderente alla realtà, un altro giornale del Regno Unito, che uscì listato a lutto col titolo “English Football is dead”. Ma a riguardo forse la storia più suggestiva rimane quella di un giocatore di riserva della squadra inglese, rimasto ignoto, che voleva “un attestato dalla FA in cui si chiariva nero su bianco che lui quella partita con gli americani non l’aveva giocata”.

L’atto finale di questa competizione non coincide con una finale, perché non prevista dal regolamento. Si aggiudica il titolo chi vince un “mini-girone” e la storia vuole che il già favoritissimo Brasile possa avere a disposizione due risultati su tre, vale a dire che anche con pareggio sarebbe campione del mondo per la prima volta nella sua storia. Il ruolo di vittima sacrificale è assegnato all’Uruguay, che sebbene abbia buoni giocatori e già un titolo di campione del mondo in bacheca, conquistato nel 1930, prima della doppietta iridata italiana, non gode per niente dei favori del pronostico, e per di più ha un solo risultato utile: la vittoria. Si narra che i dirigenti stessi della “Celeste” si accontentassero, e lo chiesero alla squadra, di non perdere di molto, di non fare una brutta figura. Un giornale brasiliano, prima ancora che la partita fosse disputata, usciva con la foto della “selecao” verdeoro di Jair e Zizinho, su cui campeggiava la scritta “Questi sono i campioni del mondo”.

E qui inizia l’incredibile storia di Alcides, Obdulio e Juan Alberto. Al Maracanà si vide e si sentì probabilmente il più imponente “dodicesimo uomo” mai visto in uno stadio, oltre duecentomila spettatori, tra cui un centinaio di sostenitori dell’Uruguay, un “fattore campo” di tutto rispetto! Obdulio è Obdulio Varela, capitano della “Celeste”, e la sua storia entra nel vivo all’ingresso in campo, intimando ai suoi compagni di non guardare in alto, per non subire la pressione del pubblico avversario, ma di tenere la testa nel campo, unico posto in cui si gioca la partita. Obdulio è furbo e quando il Brasile segna con Friaca, capisce che possono arrivare gol a raffica. Raccoglie il pallone dalla porta e si avvia molto lentamente prima verso il centro del campo, poi verso l’arbitro, per chiedere l’annullamento del gol per fuorigioco. Obdulio sa che il gol non sarà mai annullato, ma prende tempo, chiede l’intervento dell’interprete e raggiunge il suo obiettivo di rallentare il ritmo degli avversari.

Juan Alberto, invece, è Schiaffino, che si ricorda di essere un giocatore di livello assoluto e a metà del secondo tempo riporta le squadre in parità. Ma con questo risultato è sempre il Brasile ad alzare la coppa. Alcides, l’ultimo dei tre in questione, è nato a Montevideo, da famiglia di origini italiane, è piccolo di statura, ma veloce e anche per questo gioca ala, a volte è veramente difficile prenderlo, per chiunque. E proprio con uno di questi guizzi, a undici minuti dalla fine, Alcides Ghiggia, segna la rete del due a uno, dispensando allo stesso tempo gioia e disperazione. Perché il suo gol sarà l’ultimo di quella partita e fisserà il punteggio sul 2 a 1 per l’Uruguay.

 

Ci furono momenti drammatici, storie di umanità profonda e leggende che si incrociarono quella sera e per tutta la notte. In Uruguay morirono sei persone, tre schiacciate nella calca dei festeggiamenti e tre per infarto al gol di Ghiggia, giunto via radio. Lo stesso Ghiggia fu aggredito e tornò a casa con le stampelle. L’Ambasciatore uruguayano fu accoltellato mentre provava a sedare una rissa. Ma in una situazione surreale c’era da consegnare la coppa ai vincitori. Il cerimoniale saltò, la banda musicale si ritirò prima del tempo, la bandiera bianca e celeste non si trovò e i vincitori fecero il giro di campo con quella brasiliana… Ma solo la bandiera, perché i calciatori e i tifosi per festeggiare la loro “prima volta”, avrebbero dovuto aspettare ancora qualche anno, Pelè era quasi pronto, ma questa è un’altra storia..

Intanto Jules Rimet, si ritrovò abbastanza casualmente di fianco Obdulio Varela, a cui consegnò quasi furtivamente la coppa. Lo scrittore Osvaldo Soriano racconta magistralmente l’epilogo, tramite le gesta dell’uruguaiano Varela che vaga tutta la notte nei quartieri popolari di Rio a consolare i tifosi di casa disperati e a ubriacarsi con loro. “Se potessi tornare indietro, mi segnerei un gol nella mia porta”. Pochi anni fa Ghiggia, anche se un po’ acciaccato, ha preso parte al sorteggio del secondo mondiale brasiliano, quello del 2014, dichiarando ai più curiosi “Soltanto tre persone hanno messo a tacere il Maracanà con dentro 200 mila persone: io, Frank Sinatra e Papa Giovanni Paolo II”.

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