Cory Taylor ci racconta la sua esperienza con la morte

«Questo è il motivo per cui ho iniziato a scrivere questo libro. Le cose non sono come dovrebbero essere. Per molti di noi la morte è diventata qualcosa di innominabile, un silenzio mostruoso. Ma questo non aiuta chi sta morendo, persone che probabilmente non sono mai state tanto sole quanto lo sono adesso. Almeno è così che mi sento io.»

Cory Taylor è morta il 5 luglio del 2016 poco dopo aver visto pubblicare Morire. Una vita, edito da Il Saggiatore, un memoir in cui racconta la sua esperienza con la morte e ricorda la sua giovinezza trascorsa a viaggiare con una mamma e un papà che non si sono mai amati. Nel 2005 le è stato trovato un melanoma nel cervello, poi sono arrivate le metastasi: una nel polmone, una sotto il braccio, una sotto il fegato e un’altra ancora sull’uretra. Dopo diversi interventi e dopo aver capito che la situazione stava solo peggiorando, ha deciso che non era più il caso di proteggere i suoi figli e che era arrivato il momento di raccontare loro la verità.

Il peggioramento della sua malattia l’ha portata ad interrogarsi sulla questione del suicidio. Dalle prime pagine, la Taylor ci catapulta in un mondo di paure sulla morte e di dubbi a riguardo del suicidio: ci racconta di aver comperato su un sito web un farmaco cinese per l’eutanasia, che conserva in una busta assieme alla sua lettera d’addio. È il suo modo di sentirsi al sicuro, di possedere la consapevolezza di essere ancora in grado di decidere del suo destino. È capitato anche a me di domandarmi perché ricorrere alla morte assistita sia tanto diverso dal buttarsi giù da un balcone o dal tagliarsi le vene, perché il primo sia perseguibile penalmente e il secondo no. In altre parole, «se però dovessi esprimere il desiderio di porre fine alla mia vita, nessun sostegno sarebbe legalmente a mia disposizione. Sarei assolutamente sola. La nostra legislazione, a differenza di quella di paesi come il Belgio o l’Olanda, vieta tuttora a chi si trova nella mia situazione qualunque forma di morte assistita. Mi chiedo perché. Mi chiedo, per esempio, se le nostre leggi esprimano una profonda avversione, da parte dei medici, rispetto all’idea di lasciare nelle mani del paziente il controllo del processo del morire. Mi chiedo se questa avversione non sia legata all’idea diffusa in ambiente medico che la morte rappresenti una forma di fallimento. E mi chiedo se, in un contesto più ampio, questa idea non abbia finito per assumere le fattezze di un’avversione generale per la morte in sé, come se il mero fatto della mortalità fosse in qualche modo eliminabile dalla nostra coscienza».

Ma come si può affrontare la morte se viene ancora considerata un tabù anche negli ospedali dove, la fine della vita, è più un dato di fatto che una remota possibilità? Credo che l’obiettivo e il desiderio della Taylor sia stato proprio questo. Lei ha preso le redini della situazione e ha avuto il coraggio di scrivere qualcosa a riguardo, di normalizzarne la fine anche con grande ironia ed eleganza. Sembra quasi di stare con lei, sdraiati sul divano, a sentire la storia di una bambina che ha trascorso la vita viaggiando, che ha visto la madre e il padre morire di demenza, che è cresciuta, si è sposata, ha avuto figli, una vita piena.

Parafrasando quello che dice la Taylor, il nostro corpo è un viaggio, è l’insieme di tutte le cose che abbiamo fatto, una fotografia di ogni momento trascorso nel cerchio della vita che abbiamo vissuto. Tatuaggi, cicatrici, scottature sono segni indelebili della nostra esistenza, di un corpo che ha l’importante compito di alimentare la nostra anima, di arricchirla. Per questo motivo proviamo tutti delle emozioni diverse e nessuno può capire davvero cosa voglia dire morire, a meno che non si stia morendo sul serio. Anche se si legge con attenzione e con una certa empatia questo memoir, si può solo comprendere cosa voglia dire perdere una persona cara perché l’atto di morire è una cosa completamente diversa, intima, del tutto personale e, soprattutto, unica.

«La ragione per cui sono sempre stata una grande appassionata di cinema è che i film mostrano senza dire. Se dovessi scrivere la scena della mia morte per un film, i miei ultimi momenti sarebbero qualcosa del genere. Un montaggio. Le riprese amatoriali, tremolanti e sovraesposte, di una ragazza con un cane tra sole e ombra, un’auto che sfreccia su una strada polverosa, la stessa ragazza su una spiaggia sotto le palme, a braccetto con sua madre in qualche paesaggio lunare dell’outback, mentre attraversa una pista d’aeroporto con la fusoliera d’argento di un jet sullo sfondo. L’aereo decolla. Un kookaburra si posa allegramente su un ramo. Uno scinco scappa via furtivamente mettendosi al riparo. Dissolvenza al nero.»

Cory Taylor ci fa entrare gentilmente nella sua vita, riportando alla memoria tutti i suoi ricordi, belli e brutti, facendoci conoscere la sua famiglia, raccontandoci della sua passione per la scrittura e spronando in qualche modo il lettore a vivere la vita come ha fatto lei, senza rimpianti e liste di desideri che sono la conferma stessa del non aver vissuto abbastanza. Diventa quasi un’amica, una confidente che ci tiene per mano e ci rassicura sul fatto che andrà tutto bene, che non c’è niente di sbagliato e che avere paura è normale.

Morire. Una vita è un libro breve ma conciso che apre la mente, il cuore e fa scendere qualche lacrima, non per compassione ma per ammirazione nei confronti di una donna che ha avuto il coraggio di mettersi così a nudo, assieme a tutte le sue paure, senza auto commiserarsi mai. Viviamo tutti una vita in compagnia della morte, solo che non sappiamo quando ci porterà con sé e come.

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