Il grande rito collettivo dei Mumford & Sons a Milano

I live si possono dividere a grandi linee in due categorie. Ci sono quelli “intimisti”, da ascoltare in silenzio, al massimo concedendosi un timido singalong; sono quelli che senti tuoi, e tuoi soltanto, con la band che sembra cantare quella canzone proprio a te, per te. E poi ci sono quei concerti che diventano un grande rito collettivo, in cui l’interazione pubblico/band è continua e l’audience diventa un’unica entità corale. Quello dei Mumford & Sons di lunedì 29 Aprile al Forum di Assago fa parte insindacabilmente dei secondi. Arriva per la band londinese il giro di boa dei 10 anni; tanti ne sono infatti passati dalla pubblicazione del primo album Sigh no more, ed è ancora una volta Milano la città scelta per la data italiana del tour che segue la pubblicazione dell’ultimo lavoro Delta, dato alle stampe lo scorso autunno. Una band la cui fama è letteralmente esplosa con soli 4 album, guadagnandosi un seguito di fan affezionati, capaci, in Italia, di far registrare il sold out in pochi minuti.

Mumford & Sons – Foto di Alise Blandini

Ad accompagnarli durante tutto il tour, gli australiani Gang of Youths, che con il loro rock che strizza l’occhio agli ultimi Editors, scaldano, dal palco posizionato al centro del parterre, le migliaia di persone che lentamente affollano il palazzetto, riempiendo tutti i 4 lati delle tribune: una scelta scenografica di forte impatto, che permette di godere di una vista a 360°. Torneranno sul palco nell’encore, per affiancare gli headliner nell’esecuzione di una sentita cover di Blood dei Middle East.

Marcus Mumford e gli altri membri raggiungono la piattaforma centrale passando inevitabilmente in mezzo alla platea, calda e coinvolta fin dal primo pezzo Guiding Light. La scelta della scaletta è un excursus nella carriera decennale del gruppo, con particolare attenzione alla partecipazione del pubblico. Nonostante la fatidica svolta degli ultimi due album, che li vedono virare verso un gusto più pop-rock, i suoni e gli strumenti della tradizione folk in cui la band affonda le sue radici, il banjo su tutti, sono una parte consistente del live.

Mumford & Sons – Foto Alise Blandini

Vale la pena rispolverare l’espressione di “animale da palcoscenico” in riferimento al frontman: trascinante, poliedrico, si destreggia con naturalezza tra chitarra, pianoforte e batteria, con una forte presenza scenica e una voce impeccabile, che non perde corpo nemmeno quando abbandona il palco per una corsa in mezzo alla platea e su, fino al secondo anello della tribuna. Il pubblico non è solo spettatore ma parte integrante dello show, a volte un’onda che si muove a tempo, altre volte, come durante Believe, un suggestivo cielo costellato di smartphone in modalità torcia che illuminano a giorno il forum, o ancora, quando trattiene il fiato durante l’esecuzione acustica con un solo microfono di Forever, un silenzio reverenziale, esortato da un “shut the fuck up” che lascia effettivamente poca scelta. Menzione speciale per gli spettacolari giochi di luci: i 7 slot di fari posizionati sopra il palco, visti dalla zona mixer ricordano un’enorme astronave che si alza e abbassa, e aprendosi lascia fuoriuscire in un fascio di luce la figura di Marcus. Immancabile anche la pioggia di coriandoli sulla chiusura con la title track del nuovo disco, Delta, che arriva subito dopo la travolgente, immancabile I will wait che fa letteralmente tremare il pavimento dell’edificio.

Solo quattro dischi, dicevo, per conquistare un seguito devoto e variegato, che va dalle famiglie con figli preadolescenti, ai ragazzi più giovani, alle coppie che hanno evidentemente superato i 50. Una band che è riuscita a rimodellare la tradizione folk in qualcosa di fruibile, accattivante, radiofonico ed inequivocabilmente apprezzato dal grande pubblico senza farlo diventare dozzinale, “cheesy”. Difficile immaginare come ancora si possa arricchire la carriera di questi quattro istrionici “figli di Mumford”.

Tutte le foto sono di Alise Blandini


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