Razzismo e intersezionalità: in dialogo con Nadeesha Uyangoda

“La razza, una cosa che esiste e non esiste allo stesso tempo, è l’elemento che più ha definito la mia esistenza. Io sono la mia pelle, i miei capelli, il mio nome, sono le tradizioni dei miei genitori.”

In questa frase è racchiusa tutta l’essenza di “L’unica persona nera nella stanza” di Nadeesha Uyangoda, edito da 66thand2nd, una lezione di civiltà e intersezionalità ad ampio respiro, 160 pagine preziose che scuotono dal torpore generale di italiane e italiani. Il lavoro di Uyangoda è il perfetto punto d’incontro di un memoir, un saggio e una indagine giornalistica, talmente accurato e preciso nella costruzione e nelle citazioni che ti inchioda ai limiti, alle dimenticanze, a tutto quello che il razzismo inconsapevole ha prodotto. Ma non siamo qui a parlare di sensi di colpa e accuse, non è questo lo scopo del lavoro di Uyangoda, piuttosto mette in fila le problematiche che il razzismo quotidiano della nostra società aggrava quotidianamente e dà gli strumenti per scontrarcisi e riconoscerli. Uyangoda scrive del razzismo:

“È una violenza fisica, verbale o culturale, e quando è sistemico caratterizza una società le cui dinamiche portano vantaggi a persone bianche e svantaggi a persone di colore.”

“L’unica persona nera nella stanza” nasce dalla vita dell’autrice, dalle sue esperienze in quanto “italiana di seconda generazione”, definizione che indaga a lungo, e narra la fatica di sentirsi rappresentati e considerati nel mondo culturale, sociale, politico di una nazione, l’Italia, che non ha ancora preso coscienza del suo razzismo. È un’opera che fa sentire inadeguate e inadeguati perché drammaticamente indifferenti, superficiali, ma c’è spazio ancora per imparare, capire e, soprattutto ascoltare. Forse proprio ascoltare è la chiave di tutto, per uscire dalla condizione di privilegio, e riconoscerla. È così che si comincia a migliorare come persone e cittadin*. Tra riflessioni sull’intersezionalità, che pare dimenticata dal femminismo italiano, e speranza dalle nuove generazioni, parliamo con Nadeesha Uyangoda di rappresentazione, riforma della cittadinanza, e come essere alleat* coscienti.


In una campagna editoriale recente che mi è capitato di vedere su Instagram, si rivendica un cambiamento che adotti la geografia femminile come guida per un mondo più giusto. Avevo appena finito di leggere il tuo libro e la prima cosa che ho notato è stata che su 48 donne ritratte solo 2 erano di colore. Ci ho visto un enorme problema di privilegio. Ho pensato, allora, al capitolo che più ho amato nel tuo saggio, quello che evidenzia il problema del femminismo italiano che ha di fatto dimenticato l’intersezionalità. Secondo te perché questa difficoltà? È una questione di indifferenza o di una temporanea “scarsa” consapevolezza?

Il problema del rifiuto di utilizzare la lente dell’intersezionalità — o di utilizzarla in maniera “cosmetica”, come dice Sonia Garcia in quell’ultimo capitolo— ha effetti su diversi gruppi, incluse le minoranze etniche, che si sentono alienate dal dibattito femminista. Ritengo che concorrano vari elementi a concretizzare questa difficoltà: indifferenza, scarsa consapevolezza, mancanza di riconoscimento e di volontà, storicità di alcune lotte. Questo lo ha esplicitato bene Marie Moise in quella chiacchierata che riporto nel libro.

Uno dei temi chiave del libro è la riforma della cittadinanza: racconti che avevamo quasi raggiunto un punto di svolta nel 2017, poi è tutto naufragato e da lettrice mi è preso lo sconforto. Cosa potrebbe, secondo te, allo stato attuale delle cose, dare una accelerata a quella riforma?

Qualcuno recentemente mi ha detto che in Italia le riforme che ampliano i diritti si fanno quando non si possono più rimandare. E forse è davvero così, perché associazioni come Italiani Senza Cittadinanza si mobilitano da anni ogni giorno perché la legge in materia di cittadinanza venga modificata, denunciando le difficoltà e le tempistiche burocratiche che comportano la naturalizzazione e portando l’attenzione pubblica sulle esistenze di quasi un milione di italiani senza cittadinanza. Raccontiamo pressoché quotidianamente l’esperienza di nascere, crescere, andare a scuola in uno Stato che, pur considerando nostro, non ci riconosce. Forse la riforma della cittadinanza si farà quando, a destra come a sinistra, riconosceranno che un bambino nero e di minoranza etnica, se nato o cresciuto in Italia, ha il diritto di essere sin da subito italiano.

Rifletti molto nel libro sul concetto di attivismo e rammenti a chi ti legge che l’indignazione temporanea sull’onda emotiva di eventi e notizie forse fa più male che bene. Ultimamente si è molto discusso della natura stessa dell’attivismo anche in ambito femminista, poco dopo la Giornata internazionale delle donne. Credi che l’attivismo sia declinabile, cioè una esperienza soggettiva, o che vada codificato meglio?

Penso che partire dalle proprie esperienze, da un’autoanalisi, da una riflessione personale sia una strada semplice da percorrere e un buon inizio. Poi però non deve prevalere la frammentarietà delle singole esperienze — è necessario usare lenti, come quella dell’intersezionalità, per leggere questo accumulo di storie, episodi, eventi, individuare punti comuni e teorizzare un’esperienza collettiva.

In più punti citi che storicamente il razzismo ha riguardato anche gli italiani all’estero e, tuttora, caratterizza il rapporto Nord – Sud (Sud che, però, si è paradossalmente unito al pensiero razzista unificato contro gli *immigrati*). Più volte ho pensato, e di questo ti confesso me ne vergogno, che in certe esperienze di non rappresentazione ci vedevo anche punti di contatto con la mia di meridionale. In particolare mi sono detta che se nel mondo culturale/intellettuale non c’è spazio nemmeno per le voci sotto Roma (saldissimo il triangolo Roma, Milano, Torino per l’editoria), figuriamoci se si riesce a dare voce alle minoranze culturali. Come si scardina la regola per cui parlano sempre e solo le stesse voci? Come possiamo contribuire, da alleati, a moltiplicare la presenza delle minoranze sui media?

Sì, si ha la sensazione, nella bolla culturale, di incontrare e vedere sempre le stesse persone. Spesso ci si rifugia dietro alla giustificazione della scarsa consapevolezza; si dice di non conoscere persone di minoranza etnica che possano essere coinvolte in determinati contesti culturali o editoriali; che bisogna dare rilevanza alla competenza e non alle identità politiche. Eppure, così facendo, si alimenta un circolo vizioso per cui la competenza, le opportunità e il privilegio economico restano appannaggio di poche identità che, casualmente, non sono quasi mai quelle razzializzate.
Non ho una soluzione definitiva, ma possiamo condividere il microfono; chiamare sui palchi, alle fiere, ai panel, alle conferenze anche persone di minoranza etnica; ascoltare le loro esperienze e fare spazio alle loro storie. Evitiamo di raccontare un’unica storia ed evitiamo che a raccontarla siano gli stessi soggetti.

La copertina del libro (foto di Alessia Ragno); Nadeesha Uyangoda

A proposito del linguaggio: se nel mondo anglosassone si moltiplicano e differenziano i termini inclusivi per definire le minoranza (BIPOC – POC – BAME- ecc…), in Italia la difficoltà è anche linguistica. Usi spesso il termine ombrello “seconda generazione”, ma ammetti che non è universale. Come si può sviluppare un processo di evoluzione linguistica che miri al riconoscimento delle minoranze?

In Italia si parla così poco di questioni legate ai gruppi razzializzati, che per ora sembrano essere sufficienti le parole inglesi. Dall’altro lato, la conversazione razziale, complice internet, i social network, la pop culture (e via dicendo), è largamente mutuata dal contesto americano. Penso che sentiremo l’esigenza di usare termini diversi o significati nuovi quando il dibattito pubblico tratterà in maniera diffusa, e non solo relegata a qualche nicchia, di passato coloniale e di razzismo. La traduzione di un termine, di per sé, non è sufficiente se poi non circola in maniera condivisa all’interno di un determinato contesto sociale e perché questo avvenga, secondo me, una conversazione inclusiva sulle questioni razziali è imprescindibile.

È un tema che affronti nel libro e che da un lato consola: se le generazioni più adulte si esprimono in maniera molto aspra contro i social network (ma come biasimarli in certi frangenti), tu riesci a trovare una luce importante, e cioè affermi che le piattaforme social hanno contribuito a costruire una maggiore consapevolezza nelle nuove generazioni. In che modo? Possiamo davvero sperare nel futuro?

Mi sembra che i social network siano stati e siano tuttora uno strumento importantissimo per i soggetti di minoranza etnica in Italia: hanno permesso loro di raccontare esperienze, denunciare episodi di razzismo, mostrarsi come persone con competenze in aree diverse rispetto alle alternative immigrazione/integrazione. Internet ha permesso alle persone nere di autoinvitarsi nelle stanze in cui non erano chiamate affatto o erano chiamate a essere l’oggetto del discorso. La speranza è che questo attivismo digitale riesca a essere traslato anche là fuori, a innescare cambiamenti concreti, e che non si riduca alla vendibilità di un movimento (quello antirazzista, quanto quello femminista): lo spazio da occupare non deve essere solo virtuale, deve essere pubblico.

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