Neapolis Festival: polvere, acciaio e rock’n’roll

Quindici anni fa avevo tredici anni, il mondo della musica già mi incuriosiva, lo annusavo da lontano, chiuso per ore nella mia camera, a scoprire, giorno dopo giorno, la brutale e delicata bellezza del rock’n’roll. Quindici anni fa c’era una fabbrica dismessa in un’ex area industriale, sospesa a mezz’aria tra il profumo del mare e il veleno dell’amianto. Quindici anni fa nasceva il Neapolis Festival, qualche anno dopo ne sarei diventanto un fedele spettatore, dai C.S.I a Patti Smith, passando per i Cure e Nick Cave fino alla potenza eccessiva dei Prodigy, da Bagnoli a Fuorigrotta, tra cambi di location e line-up sempre interessanti che hanno sempre saputo osare pur rimanendo in linea con i gusti della massa, cercando di non scontentare mai nessuno. Quest’anno quell’acciaieria è tornata ad essere un luogo vivo, abitato. E’ un luogo che avevo nel cuore da troppo tempo, perchè il ricordo delle giornate passate in fila per conquistare un posto sotto alle transenne, tra il sudore e l’incoscienza dell’adolescenza, non sempre te lo dimentichi. Ci sono state polemiche, ma quelle nella nostra terra non sono mai abbastanza: è la natura vulcanica, dicono, è che non ci sta mai bene niente, è che non ci sappiamo accontentare. Non prendo le distanze dalle critiche, sarebbe ipocrita, sarebbe troppo comodo. Io ho criticato, come tutti, poi ho pagato e ci sono stato, per un motivo che oggi potrebbe sembrare ridicolmente romantico: perchè ci credo. Perchè la mia città se lo merita un posto così, un luogo dove incontrarsi, dove ubriacarsi, dove ascoltare tutti con la stessa attenzione, senza distinzione. Dove poter dire che un gruppo fa proprio cagare solo dopo averlo davvero ascoltato suonare, senza troppi preconcetti.   
Ma parliamo di musica che forse mi riesce meglio anche perchè i miei ricordi, probabilmente, interessano davvero a pochi.

Giorno 1
Arrivare nel pomeriggio di luglio a Coroglio, con il sole che sbatte sulle pietre dell’Acciaieria Sonora, è esperienza esaltante. Ti lamenti dicendo ai tuoi amici che “fa caldo”, che c’è troppa luce, però dentro di te sei felice, perchè è diverso, perchè non ti fai 1000 km per andare all’estero e ascoltare un po’ di musica dalle cinque del pomeriggio, perchè lo fai a casa tua e perchè anche se stenti a credelo, stasera a Napoli suonano i Mogwai. E’ bello entrare, farsi accogliere dalle band nuove, quelle che al Neapolis ci sono arrivati grazie a Destinazione e scoprire quanto tutti sembrino diversi su quel palco gigante, quanto si esprimano diversamente. Ci stiamo riscaldando con i primi drink, ma siamo pronti a schierarci seriamente davanti al palco che stasera a Napoli ci sono gli Architecture in Helsinki: su disco, a primo acchitto, non mi hanno mai fatto impazzire: carini, nulla di più. E invece dal vivo è tutta un’altra cosa, l’energia della loro musica ti conquista. Un synth pop che si sposa col funky e ti ritrovi a ballare senza nemmeno accorgertene. Sono fighi gli Architecture pur non essendo belli, hanno carattere. C’è gente sotto al palco e si sente. Non credo li conoscano tutti, eppure li apprezzano, ballano, si sbattono. Perchè la musica è comunicazione e puoi essere anche un’illustre, sconosciuta band australiana osannata da Pitchfork ma se sai suonare, se sai creare un’atmosfera, sarai sicuramente una grande band. Un’ora e mezza di puro godimento, i ragazzi sul palco si divertono e apprezzano il pubblico napoletano. Bei momenti.
Sembra impossibile ma manca solo mezz’ora, il tempo di una fila e di un drink, per poi tornare in posizione. Sul palco è presente il muro di amplificatori, le testate Orange, le pedaliere che non le puoi vedere purtroppo, altrimenti ti spaventeresti. I Mogwai sono il post rock. Punto. Ti puoi arrampicare a trovare migliaia di loro cloni, che scopiazzano arpeggi, di pezzi che creano l’atmosfera e poi tirano giù i muri, ma non sarà mai QUEL suono curatissimo, quel muro di fuzz che ti investe, ti cattura e ti catapulta in un altro universo. I Mogwai sono delicati, violenti, struggenti, sono una tempesta che prima ti ammalia e poi ti rapisce nel suo vortice scaraventandoti dentro la sua forza centrifuga. Hanno creato un mondo bellissimo, ci hanno fatto emozionare, commuovere, ci hanno fatto vivere tutto questo in casa nostra e non mi sembra ancora vero. C’è voluto un po’ ma mi sono ripreso, purtroppo non con il prossimo concerto, perchè gli Skunk Anansie li ho trovati davvero brutti. Misera ripetizione di se stessi, non mi hanno mai fregato nemmeno a quindici anni, hanno scritto qualche album buono, ma il concerto del Neapolis è roba da manuale, senza anima, mera ripetizione di “classici” più o meno discutibili con una potenza ossessiva delle chitarre e la terribile, stridula voce dell’ex pantera Skin. Gli spettatori c’erano, hanno apprezzato, li hanno acclamati a gran voce. Ben venga, buon per loro. Io non ho retto fino alla fine, mi sono sentito al Festivalbar dieci anni dopo e sono andato via.

Giorno 2
Anche oggi si arriva presto, ma con una carica diversa, non ci sarà il rock, ma ci saranno i suoni cubici, quelli elettronici, quelli che sudi e alla fine neanche te ne accorgi e chissenefotte se mi entra un kilo di polvere nei capelli, è ancora rock’n’roll. Ci sono i New York New York, che quando li sentivi suonare al Mamamu o al Duel già lo sentivi che spaccavano e il Neapolis non può che confermare. E’ un peccato che rispetto al giorno precedente ci sia così poca gente a parità di orario, però tant’è, poverini quelli che non hanno trovato nemmeno qualche bottiglia da riciclare o che hanno pensato di farsi la pennichella domenicale, lasciamoli alla chiesa, alla spiaggia, alla tintarella e alla loro vita borghese del cazzo, noi ci godiamo un po’ di musica. I Crocodiles sono dirompenti, sono così inglesi nei suoni che manco te lo accorgi che sono americani. Un po’ Jesus and Mary Chain, un po’ Echo and The Bunnymen, francamente il loro punto forte non è certo l’originalità, ma tutto sommato sono forti, hanno carattere e questo basta per spaccare alle otto di sera di domenica. Sono un ottimo riscaldamento, perchè dopo tocca a un gruppo che m’importa una sega di aver visto tre volte nell’ultimo mese. Si chiamano Battles e, con rispetto parlando, spaccano il culo. Probabilmente il miglior live del Neapolis: tecnica, cuore e sudore. I nuovi Battles mi convincono quasi più dei vecchi, si sono liberati del cliché da math band per eccellenza, ci hanno messo un po’ di elettronica, quanto basta, hanno abbracciato il prog, ma non troppo e, soprattutto, per la gioia del pubblico pagante e non, hanno suonato Atlas, che davvero non la facevano da troppo tempo, vuoi per dare un segno di discontinuità fra il primo disco e la nuova vita senza il cantante, vuoi perchè un po’ si sono rotti di essere ricordati per quello. In ogni caso ci sono e, a Napoli, hanno vinto loro. Ci si riposa un po’ che poi si parte con l’elettronica pesa e gli strumenti lasciano il posto alle consolle e in men che meno te lo aspetti ti ritrovi con gli Hercules and Love Affair che fanno ballare, sono eccessivi e fanno ballare con la loro house martellante, pronti a servire un buon antipasto a chi non aspetta altro che il piatto principale, quello forte. Il concerto degl Underworld è epico, ti rimbomba in testa dalle prime note e lo farà anche il giorno successivo. E’ come sentirsi in Trainspotting senza esserti calato l’impossibile, ti fa cadere in trance mentre balli la techno e pure se sei un indie poser del cazzo non ti vergogni minimamente di assomigliare a un cuozzo per una sera. Si può fare, è il gioco dei ruoli, basta non farlo troppo sapere in giro. Un’ora e mezzo di trance-techno devastante, con le luci che ti sconvolgono e ti tengono sveglio. Un rave party nel mezzo dell’acciaieria.

Io non lo so se i napoletani se lo meritano un festival così, sono sicuro che buona parte o la parte buona dei napoletani se lo merita e non vorrebbe vederlo finire. Dopotutto si sa, sono meglio le critiche, che i rimpianti.
Forza Neapolis, resisti ancora se puoi. Io sono con te. Nonostante tutto.

(si ringrazia Lucio Carbonelli per le foto di Mogwai e Battles)

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