Nei dubbi sul referendum c’è la solitudine di un paese

Si è formato un clima avvelenato attorno al referendum costituzionale, fatto di scontri, cattive risposte e la rinascita di un certo tipo di ortodossie che godono nel demolirsi a vicenda. Internet è un vespaio, in costante attesa di un nuovo motivo per far ronzare migliaia di idee contrastanti attorno al primo accenno di carne nuova da macellare, ieri Trump, oggi Lapo, domani chissà. Ed è frustrante rendersi conto come questo possa essere il punto più alto in materia decisionale per la nostra generazione. Il primo referendum, se non altro, capace di catalizzare su di sé l’attenzione generale e, soprattutto, il primo che riguarda direttamente questa nostra generazione. Nel 2006 la maggior parte di noi, per fare l’unico parallelo possibile sul grado di importanza di questa chiamata alle une, era ancora troppo giovane per votare, alcuni mettevano il primo timbro alla tessera elettorale, che ripensarci fa anche venire un certo tipo di nostalgia. Perché così come nel 2009, tutto era, in parte, diverso. Le posizioni erano chiare, c’era una certa linearità fra le proposte di un governo di centrodestra e chi si opponeva, quel tipo di centrosinistra che alla retorica del cambiamento necessario opponeva le idee e le riflessioni. Ma eravamo solo di contorno, ancora ci consideravamo i giovani per cui gli adulti avrebbero dovuto votare, ora che le parti si stanno rapidamente scambiando le problematiche si sono moltiplicate, non solo per l’inesorabile considerazione sul fatto che stiamo invecchiando anche noi. Si è fatto tanto rumore in questi mesi e ormai non si è più sicuri da quale parte guardare, di nuovo. Per tutti questi motivi a dicembre, indipendentemente dall’esito, il concetto stesso di essere cittadino sarà costretto a rivalutarsi, e noi con lui.

Non troverete in queste parole slogan per il Sì e nemmeno per il No, ma un accumulo di sensazioni contrastanti e continue rivalutazioni, conseguenza diretta di una discussione nata per disorientare e trasformare il piano del confronto su opposizioni strumentali, di retoriche che collidono contro lo stesso diritto di opinione che cercano di sostenere, per cui un’opinione diversa diventa sbagliata, o immobilista o antidemocratica. Due derive che si incontrano allo stesso punto, così lontano dal confronto politico, contribuendo a rendere il 4 dicembre un giorno di cui avere paura. Quel momento del diritto positivo che dopo essere stato ignorato per anni assume oggi sempre più sembianze spaventose, destinate a dividerci, probabilmente, per sempre.

Ragionando sul voto degli Stati Uniti, su come certe minoranze abbiano potuto votare una specie di barzelletta vivente ha evidenziato come esista una zona grigia, una post-maggioranza sfuggevole, di cui è impossibile prevedere le decisioni in cabina, quando ci si ritrova soli davanti al foglio e alla matita. In questi anni il processo di smantellamento della sicurezza della propria appartenenza politica, legato solo in parte dalla scomparsa degli ideali del novecento con cui ci ostiniamo a confrontarci, ha iniziato a fare proseliti di vecchie chiese che sembravano destinate a scomparire. Non si tratta solo di populismi e tutte le differenti forme di razzismo sparse un po’ in tutto il mondo. Nel nostro paese abbiamo assistito a una lenta e sofferente diffidenza verso la politica e i suoi strumenti, non ultimo il fatto che gli scrutatori potessero con una gomma cambiare il voto espresso da un altro a proprio piacimento. Sono piccole gocce che lentamente hanno portato allo sgretolamento delle fondamenta del sistema che porta ad avere fiducia nello stato democratico e nelle sue cariche che, già da sole, arrancano nel dimostrare il contrario. Si sono formate così certe riserve indiane, non più definibili in termini anagrafici, in cui è impossibile separare i livelli linguistici e tematici del confronto, fondanti un nuovo genere di tuttologia malinformata, che non fa che accrescersi di giorno in giorno. La dislessia funzionale non è il male del nuovo millennio, nasce semplicemente dal fatto che tutti, allo stesso modo, hanno la possibilità di esprimere opinioni che prima tenevano per sé o pochi intimi, trasformando quelli con la voce più alta in influencer delle proprie cerchie. Basta fare un rapido viaggio all’interno delle pagine in cui la discussione politica si fa più accesa per rendersene conto. Il vero prodotto di questa liberazione delle opinioni non è aver reso inefficaci gli strumenti di previsione politica, ma la manifestazione virtuale di ciò che accade nel mondo e, estendendola a un’altra sfera più privata, all’interno della cabina elettorale. Una frase guareschiana da nel segreto della cabina elettorale Facebook ti vede, Renzi no!

La sfiducia è una della conseguenze più dirette del silenzio che ci appartiene, così come lo è la paura. In questi mesi sono state tante le trasmissioni e gli editoriali che si sono dedicati al racconto delle diverse posizioni fra tante parti della popolazione, campioni a cui fare affidamento solo in parte, certo, ma meritevoli di attenzione. Forse perché, in definitiva, ci interessano molto più le opinioni di alcune persone, in particolare se vicine a noi per età e percorso culturale, mi è sembrato chiaro come quel disagio che provo e che mi accompagnerà fino a domenica, è parte di un contesto più ampio. Fortunati coloro che hanno un’idea già formata e sapranno cosa votare, ma per inclinazione intellettuale mi sono sempre interessate più le situazioni in cui il dubbio provoca scissioni continue e la decisione, anche su una scelta apparentemente semplice come quella fra sì e no, è costantemente appesa a un filo. Capisco le ragioni del sì, e la necessità di produrre un cambiamento tangibile. Comprendo la volontà di alcuni amici nel votare no, nonostante questo significhi allinearsi alla scelta di esponenti e partiti di estrazione diametralmente opposta. Il mondo della politica è fatto di compromessi ma non è nemmeno detto che lo sia davvero. Tuttora se mi domando cosa voterò non so cosa rispondermi. Faccio anche io parte di questa zona grigia e come me, molti altri, indipendentemente dal grado di istruzione e ragione sociale. È una difficoltà a cui non siamo preparati a fare fronte e, proprio per questo, siamo chiamati a una serie di piccoli eroismi, a scansare le risposte che ci sembrano più facili («Senza questa riforma il paese rimane fermo per trent’anni») o dettate da prese di posizione troppo fisse («Davvero vuoi votare la stessa cosa di Salvini e Berlusconi?»). Parti superficiali di un discorso molto più ampio. Per anni abbiamo atteso quel momento in cui ci avrebbero chiamato a prendere una decisione importante e, ora che è arrivata, non sappiamo più cosa fare. A nulla ci sono serviti i libri, le lotte studentesche e nemmeno le più lunghe discussioni sul futuro. Quando la vita si intromette ogni certezza è destinata a farsi da parte e ora che manca meno di una settimana il tempo è pure poco. In qualche modo tutto coincide con il punto da cui siamo partiti. Il clima avvelenato che non permette una informazione e un confronto sano, di cui i salotti televisivi sono solo una piccolissima estensione, mostrano la difficoltà di prendere una posizione. Pensavamo che gli anticorpi di cui abbiamo farcito la nostra adolescenza potessero difenderci dall’ombra del dubbio e che ci avrebbero permesso di cambiare il mondo ma, in fondo, sono sempre stati con noi, solo che non eravamo ancora stati messi alla prova. Eppure è praticamente impossibile distaccare questa relazione soggettiva al contesto in cui ci troviamo. I dubbi si nutrono della solitudine, e questo referendum non può che continuare a farci sentire sempre più degli animali solitari che vivono questo paese.

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