Neil Young ci accarezza ancora una volta

Con l’uscita di Homegrown, il disco riemerso dagli anni Settanta solamente lo scorso giugno, Neil Young ci ha offerto un rifugio perfetto: è facile lasciarsi sedurre dalla sua voce per catapultarsi in altri tempi, accarezzati da una vecchia armonica che scandisce il ritmo della chitarra. Registrato tra il 1974 e il 1975, Homegrown ci riporta ai tempi di On The Beach e della Trilogia del Dolore di Young: doveva uscire nel 1975, alla fine gli fu preferito Tonight’s The Night che concluse la trilogia, una delle vette artistiche della discografia del cantautore canadese. Troppo personale per Neil Young questo disco che raccontava la fine della relazione d’amore con Carrie Snodgress – solo a distanza di più di 40 anni i riferimenti biografici sembrano essere sfumati nel cuore di Neil, abbastanza da persuaderlo a rilasciare l’ascolto del disco al pubblico. E ci accarezza ancora una volta Neil Young, con il suo immaginario folk-rock da anima perduta dentro un ranch o a spasso su spiagge solitarie – con quella voce perennemente alla ricerca di un heart of gold e di un sogno d’avvenire. Quel sogno si è poi infranto, schiantato – forse dimenticato?, chissà.

C’è una coincidenza che ha toccato la sorte di questo disco, è uscito in contemporanea al nuovo album di Bob Dylan: lo stesso giorno, un 19 di giugno come un altro (una di quelle giornate magiche che ci ha regalato pure la venuta al mondo di Nick Drake). E anche se Homegrown è arrivato all’ascolto un po’ oscurato dal ritorno in gran stile di Dylan, la sincronia con cui Dylan e Young si sono ritrovati nella stessa giornata ha rimescolato un po’ le carte della nostalgia, e quella nostalgia si è fatta presto purezza, si è imbellettata per trovare riparo tra le braccia di un certo cantautorato indimenticato; in quella nostalgia non c’erano dentro solamente gli anni Settanta e la sua modulata retorica, ma un lungo arco temporale che si dispiegava dalle origini fino ai giorni nostri – due voci maestose che avevano attraversato decenni, ispirato generazioni, scombussolato le anime, dirottato i cuori. E in fondo Neil Young ha il dono di ispirare a chi lo ascolta grandi dosi di nostalgia anche quando non rilascia dischi che vengono direttamente dagli anni Settanta: la voce di Neil Young è utopia di nostalgia, ebbrezza malinconica. Persino quando canta di guardare il cielo (che sta per venire giù la pioggia) sale addosso la malinconia.

 

Ce lo immaginiamo così il giovane Neil, al Broken Arrow Ranch a registrare Homegrown in quelle giornate dei Settanta senza avere certezza che poi il disco verrà distribuito anche al pubblico – a suonare semplicemente per sfogare i suoi fantasmi, trovare nella musica una speciale catarsi. E ci accarezza ancora una volta Neil Young, con il suo country-side dove l’amore è una rosa, le strade degli amanti si separano e non resta che guardare a una via di fuga immaginaria verso un Messico che è terra brada. Ci accarezza con canzoni come Try, perle rare nell’oscurità, e il magnifico piano notturno di Mexico che riporta alla testa certe felici registrazioni di Young, e ancora con l’elettricità della title-track, il testo visionario di Florida, la chitarra di Kansas, la bellezza assassina di White Line, il ritmo allucinato-rock di Vacancy. E sì, c’è tutta la nostalgia di Young in questo disco – per la giovinezza e la sua feroce irrequietezza, per canzoni sussurrate come Little Wing, per le sessioni di registrazione al Broken Arrow Ranch, e per Carrie Snodgress, volto perduto tra tanti volti perduti (per droga, per amore, per morte) e poi cantati. Se ti capita di perdere qualcosa cantalo, il visionario messaggio di Neil Young si fa sentire fino a qui, e se ti capita di amare canta. C’è coraggio, amarezza, e quel po’ di leggerezza che rianima, in questo disco riemerso. E va tenuto stretto in questa estate, come un bellissimo rifugio che grida all’inverso.

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