Nel nuovo medioevo di Grimes

Nella definizione di demonologia data dalla Treccani, “la presenza del diavolo […] fu sentita dai medievali reale, continua, pressante, ossessiva […] nelle catastrofi naturali e nelle epidemie…”. In un’intervista doppia concessa a Lana del Rey e all’attrice americana Brit Marling (creatrice e attrice in The OA), Claire Boucher associa il suo ultimo album, Miss Anthropocene, ai concetti di demonologia e pantheon. “Mi piace come gli antichi Greci ed Egizi vivessero in questo strano mondo anime dove c’erano un sacco di dèi che potevano rappresentare tutto. Era come se ogni forma di sofferenza avesse una sua rappresentazione”. Più avanti, “[…] nel Medioevo, quando pochissimi sapevano leggere, tutto è diventato simbolico, come la croce […] Per me stiamo tornando a un’epoca simile, in cui tutto è simbolico. Nessuno legge oltre il titolo, perché la nostra finestra di attenzione è così breve.”

Annunciato da più di un anno e poi continuamente rimandato, Miss Antrophocene gioca nel titolo sulla crasi tra le parole misanthrope e anthropocene, quest’ultima usata per descrivere la presente era geologica in cui le attività umane stanno radicalmente modificando l’ambiente in cui la stessa specie vive. In un’altra intervista, Grimes definisce il suo lavoro come “un disco cattivo su quanto bello sia il cambiamento climatico”. Ok, stop, prima di spiegare questa affermazione soffermiamoci sul perché l’album sia cattivo. Vi è una ragione sia personale che una prettamente artistica. Da un punto di vista personale, in questo disco Grimes (o c, come si fa chiamare di recente) è ragionevolmente incazzata, e ha ben deciso di passare dalla parte del villain. Da producer elettronica di nicchia (i suoi primi due dischi) a osannata creatrice di un multiverso di stili musicali differenti (gli ultimi due), fino al 2017 circa Claire Boucher è stata generalemente benvoluta dalla critica in quanto simbolo di un eclettismo futuristico nei confronti del pop, ma anche per il suo impegno politico e per la causa femminista che portava avanti in quanto, da una parte, unica responsabile della propria proposta artistica, dall’altra invece rappresentazione di numerosi alter-ego femminili che sfidavano apertamente i canoni di bellezza “classica” e le imposizioni, date per acquisite, di una società di stampo patriarcale.

È bastato invece l’annuncio della sua storia con Elon Musk, simbolo del turbocapitalismo più visionario da una parte, più squalesco dall’altra, per ribaltare la sua percezione. Il New Yorker ha dato voce al “senso di delusione […] che ha rivelato una nostalgia per un tempo in cui le differenze politiche diventavano più facilmente differenze di gusto, e vice versa […] Come sarebbe se le cose ancora significassero qualcosa?”. Si è addirittura polemizzato sul fatto che, nella sua bio di Twitter, a un certo punto, Claire avesse tolto la scritta “anti-imperialist”. Zola Jesus, addirittura, al culmine di una polemica sempre su Twitter in merito al ruolo dell’intelligenza artificiale nella musica, l’ha descritta come “la voce del privilegio fascista della Silicon Valley”. Grimes ha quindi voluto portare quest’alone di negatività che ha iniziato a circondare la sua figura all’interno del suo discorso artistico. Miss Anthropocene diventa quindi una divinità malvagia del cambiamento climatico, una personificazione della catastrofe a cui siamo attesi. O meglio, non una sola divinità: nelle intenzioni di Boucher, ogni canzone andrebbe interpretata come una diversa figura di un pantheon immaginario della sofferenza, portavoce dei peggiori istinti umani che stanno portando il nostro pianeta al collasso. Personificare quindi figure malvagie per destare un senso di empatia e urgenza che la narrazione attuale del cambiamento climatico (quella che fa leva sul senso di colpa) non riesce a provocare. Nelle sue parole: “guardo l’orso polare e mi voglio ammazzare. Nessuno vuole guardarlo, capisci? Voglio creare una ragione per guardarlo. Voglio renderlo bello”. Quindi no, per Grimes il cambiamento climatico non è bello: è una cosa impossibile da scrogere e analizzare, in quanto iperoggetto e generatore di senso di colpa; per questo motivo eleggerlo a oggetto estetico, e inserire un antagonista alla razza umana è un atto utile a fare cogliere il fenomeno.

Un progetto molto ambizioso, che però si presta bene alla capacità di world-building di Grimes, mai solo musicista ma anche videomaker, attrice, modella, performer. Ma di chi (o che cosa) è composto questo pantheon ideale della distruzione? Chi sono gli dèi con cui prendersela quando le cose vanno male? Il primo alter-ego è quello di Darkseid, titolo di una canzone e supervillain di alcuni fumetti della DC Comics il cui obiettivo principale, stando a Wikipedia, è “ottenere l’equazione dell’Anti-Vita per eliminare il libero arbitrio dagli esseri umani e ricomporre l’universo a sua propria immagine”, che in un certo senso potrebbe anche essere la definizione di antropocene e delle sue cause economico-sociali. La canzone è per metà in inglese e per metà in cinese mandarino: i versi di Grimes sono un mantra ripetuto: “Unrest in your soul / We don’t move our bodies anymore“, che può sembrare un haiku sui milioni di hikikomori confinati in una cameretta e davanti a uno schermo. Delete Forever, ultima canzone ad avere un video (piuttosto semplice a dire il vero, nel suo giocare sull’immaginario del trono sulle rovine, abbinato a toni accesi che richiamano i manga) è un pezzo emo alla Replacements sulla depressione, i demoni personali di ognuno e l’uso di droghe (soprattutto l’eroina) per sopravvivere al “permanent blue“, così come My Name is Dark: “So we party when the sun goes low / Imminent annihilation sounds so dope“. Tutte le liriche del disco sono pervase da una sensazione di divertimento sull’orlo del collasso: in Before the Fever Grimes canta: “This is the sound of the end of the world / Dance with me ‘till the end of the night“.

Violence racconta invece le sensazioni di una abusive relationship: è il pianeta Terra che sta cantando “‘cause you feed on hurting me, love“? E a chi? A un’immaginaria dea della distruzione o all’essere umano stesso? Il pezzo finale si intitola IDORU, ovvero la traduzione giapponese della parola idolo, inteso qui come teen idol (ad esempio, i cantanti delle band di k-pop, di cui Claire è grande fan). Nel romanzo omonimo di William Gibson, autore distopico e maggiore esponente del cyberpunk, Idoru è un’intelligenza artificiale di cui si è innamorato il cantante di una famosissima pop band. Altro personaggio del romanzo è un investigatore incaricato di trovare dei “punti nodali” di informazioni mondane che potessero manipolare la psiche del cantante. Nell’universo permeato dagli immaginari distopico, ucronico e anime di Grimes (d’altronde il suo primo lavoro, Geidi Primes, è ispirato al romanzo fantascientifico Dune di Frank Herbert), questa è una sorta di elaborazione di tutti i “punti nodali” che l’informazione le ha pilluccato da quando la sua storia con Musk è diventata pubblica. Le parole su cui si chiude il pezzo e il disco sono “I adore you“.

In conclusione, Miss Anthropocene è un disco dalla grande ambizione: la sua lunga lavorazione si riflette nella qualità e varietà delle tecniche usate -dal sampling al looping all’editing manicale-, che rendono il discorso musicale molto cupo, efficace nel trasmettere un senso di, per dirla alla Battisti, “guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere e poi è tanto difficile morire”, che è quello che stiamo facendo al pianeta e a noi stessi conducendo un certo stile di vita: la sua musica è eclettica come sempre in Grimes, ma secondo noi i suoi momenti migliori sono quelli che restituiscono questa esatta sensazione. La dance è molto presente, ma è come se fosse fuori posto, non necessaria, anzi proprio di troppo, come quando si mangia fino al disgusto un piatto e viene da vomitare poi solo a trovarselo davanti. Questo disagio è restituito da pezzi come Violence e 4ÆM: il primo gioca sulla contrapposizione tra un bordone di basso che sembra uscito dalla colonna sonora di Drive e le impennnate di voce, ovviamente grondanti eco, che lo accostano al j-pop; il secondo inserisce citazioni esotiche e bollywoodiane (percussioni, forse una marimba, linee vocali) a una canzone quasi grime, come se Jai Paul si fosse appena svegliato da un incubo. Sketch di un orso polare in decomposizione, bello nel suo essere destinato a sparire, non per causa di un Ade maligno, ma a causa nostra, Miss Anthropocene è piuttosto un disco molto riflessivo, in alcuni punti autobiografico: non la vetrata medievale anticipata, quanto piuttosto una polaroid di una festa ormai finita di cui a nessuno importa più.

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