Neruda di Larraín, tra sogno e realtà

[I miei anni d’esilio] non so se li ho vissuti, sognati o scritti
Pablo Neruda, 1971

La macchina da presa inquadra un uomo corpulento, di spalle. L’uomo si muove all’interno di una sala grande, decorata, tra uomini eleganti. La macchina lo segue, poi si sposta sugli altri uomini, alcuni lo contestano, altri lo applaudono e lo sostengono. Si sente all’improvviso il suono di uno sciacquone. Siamo nell’autunno del 1947, a Santiago del Cile, nel bagno del Senato della Repubblica. Quell’uomo che divide in due gli astanti è Pablo Neruda, il grande poeta cileno. Di lì a poco, il 6 gennaio, leggerà il suo Yo acuso, denunciando il campo di concentramento per prigionieri politici nella città di Pisagua.

Il presidente Gabriel González Videla, eletto poco più di un anno prima con il sostegno di radicali, democratici e comunisti, ha ben presto cambiato il corso delle proprie idee. Dopo quel discorso metterà Neruda davanti a una scelta: l’esilio o la prigione. Davanti all’aut aut il poeta di Veinte poemas de amor y una canción desesperada reagisce nell’unico modo che gli è congeniale, con la fantasia e una fuga di tredici mesi in cui si nasconderà protetto dagli amici fidati del partito, insieme alla compagna, la pittrice Delia del Carril con la quale vivrà gli ultimi giorni di vent’anni d’amore fino all’esilio, in Argentina prima, quindi in Francia. Una fuga che non gli impedirà di continuare a scrivere e inviare le sue poesie in tutto il mondo (confluiranno poi nel Canto General). Tredici mesi nei quali il partito comunista sarà dichiarato fuorilegge, cinque anni prima del colpo di Stato del Generale Pinochet (che Larraín ci mostrerà per un attimo come ufficiale nel campo di concentramento di Pisagua).

Pablo Larraín, il regista cileno quarantenne che, con sei lungometraggi in appena dieci anni, ha saputo imporsi come una delle voci più sorprendenti e, allo stesso tempo, autorevoli della sua generazione, conosce bene il mondo che racconta con i suoi film. Le sale del Senato sono a lui familiari, proviene, infatti, da un’agiata famiglia politica appartenente all’ala conservatrice (suo padre è stato presidente del Senato, sua madre ministro), e da quel lato della storia, il lato sbagliato, ha saputo raccontare il cuore nero del suo paese, ponendo l’accento soprattutto sul potere declinato nelle sue diverse forme: lo Stato, i media, la Chiesa. Dotato di un’idea di cinematografia granitica che non concede un millimetro di terreno alla facile fruibilità, sorretta com’è da una fedeltà formale e sostanziale che è la cifra evidente e significativa di tutte le sue opere, lontane, in termini di narrazione, da scorciatoie didascaliche, Larraín ha da sempre ricondotto ogni aspetto, ogni tema della Storia con la “s” maiuscola a storie di uomini.

Tony Manero (2008) interpretato dal grandissimo Alfredo Castro (suo attore feticcio che qui interpreta Videla) che, dietro l’ossessione per il personaggio di John Travolta, cela una violenza pronta a esplodere. Post Mortem (2010) in cui il golpe e la morte di Salvador Allende e, insieme a lui, della meglio gioventù cilena sono filtrati dalla mediocrità di un uomo che lavora nell’obitorio di Santiago. NO (2012), che racconta la campagna pubblicitaria grazie alla quale nel 1988, a sorpresa, il popolo cileno ottenne nuove elezioni. Ma è con El Club (2015) che Larraín raggiunge l’apice della sua produzione grazie a un film cupo e claustrofobico che racconta le case di espiazione in cui la Chiesa cilena nasconde i preti accusati di connivenza col regime, di pedofilia, di traffici di bambini, lontano dalla giustizia dello stato e degli uomini, ma immersi, come la luce nelle tonalità di un azzurro plumbeo che accompagna l’intero film, più che in un pentimento personale (che tarda ad arrivare) in qualcosa che rasenta l’oblio.

Chi conosce la storia cinematografica di Larraín sa bene di non poter certo aspettarsi un biopic nel senso classico. E, infatti, Larraín non solo rifiuta in partenza l’idea di raccontare la vita del poeta ma, concentrandosi sui mesi della fuga, abbandona quasi integralmente ogni pretesa di realismo. La storia è raccontata da una voce fuori campo, quella del poliziotto Óscar Peluchonneau (il sempre eccellente Gael Garcia Bernal), personaggio di fantasia (ma ispirato a un vero investigatore cileno), un orfano cresciuto tra i bordelli (gli stessi a cui il poeta non saprà rinunciare anche nella fuga) che crede di essere figlio del fondatore della polizia cilena. Un uomo misero e gretto che però ha sogni di rivalsa quasi romantici. Fin da subito appare chiaro che la sua persecuzione verso il poeta è prima ancora che poliziesca, morale. Perennemente in cerca di una famiglia e di radici e, per questo, incapace di amare (ne sa qualcosa lo young pope di Sorrentino), il giovane poliziotto si mette sulle tracce del padre spirituale di un intero paese, creando col poeta un rapporto ambiguo e duale fatto di persecuzione e di ammirazione, di volontà di annientamento per ottenere finalmente rilievo all’interno della polizia e, nello stesso tempo, di un’ammirazione strisciante, consapevole che solo nella grandezza dell’altro, in fuga, può rivelarsi, finalmente, la grandezza che ricerca in se stesso.

Il Peluchonneau dello schermo è, dunque, un personaggio inventato, ma da chi? Mentre l’inseguimento procede e il prefetto non riesce ad assumere su di sé una dimensione autentica e reale, sembra quasi diventare (non solo allo spettatore ma ai suoi stessi occhi e nelle sue stesse parole) nient’altro che un personaggio inventato dallo stesso Neruda per spegnere o alimentare la sua sete di visibilità, la sua centralità nella vita politica e artistica, dentro e fuori il Cile. Il poliziotto mancherà sempre di un soffio la cattura e ogni volta troverà ad aspettarlo un libro poliziesco con una dedica come in un gioco o una sfida. I dialoghi tra i diversi personaggi (in particolare, quello tra il poliziotto e Delia del Carril, interpretata dalla bravissima e affascinante Mercedes Morán) abbandonano completamente l’unità di tempo, luogo e azione, proseguendo su diverse inquadrature che non hanno continuità tra loro. Larraín costruisce, così, scena dopo scena, una visione frammentaria e accattivante, più che del poeta del mondo nerudiano affidandosi alla generosità di Luis Gnecco capace di dar vita a un Neruda esuberante, affascinante, cialtrone, egoista ed egocentrico eppure capace di far sognare folle adoranti di ammiratrici. In questo noir che mescola poliziesco e black comedy e che, su un finale addirittura western, sembra rendere omaggio al Revenant del messicano Iñárritu, Larraín si diverte a giocare con ogni inquadratura, con ogni battuta di una sceneggiatura solidissima (Guillermo Calderón) attraverso diversi meta-linguaggi che mescolano la narrativa, la poesia e il cinema stesso.

Neruda è un film costruito sul sogno, sull’idea ambiziosa che rendere omaggio al poeta significhi realizzare un film come fosse una sua poesia, che rendere onore significhi sempre e comunque non costruire santini ma rifuggire dall’agiografia e che compito del cinema, come di tutta l’arte, sia porre domande senza offrire risposte. Girato ancora una volta magistralmente con un uso del colore che oggi ha eguali solo nel maestro russo Aleksandr Sokurov, Neruda è un film in chiaroscuro: Sergio Armstrong, direttore della fotografia, sembra impastare la grana cinematografica con il pulviscolo che entra in case assolate o in penombra, con il fumo delle sigarette, con la sabbia del deserto che si alza al passaggio dell’auto in fuga come in un road movie americano degli anni cinquanta.

Fin dagli esordi Larraín non è profeta nella sua patria. Le sue scelte, la sua volontà di narrazioni da prospettive inedite, la sua denuncia che si nasconde in pieghe equilibrate che provano a raccontare altri segni, altre storie senza affrontare mai direttamente l’orrore della dittatura politica e, soprattutto, l’appartenere a una famiglia ricchissima e politicamente esposta, gli hanno attratto sempre fortissime critiche. Con Neruda, toccando il nervo nevralgico del vero padre della patria cilena, il rischio era altissimo e se l’è preso tutto, offrendo al pubblico un divertissement che non esclude la profondità o momenti lirici, ma che, come sempre, sfida il pubblico e non lo rassicura. Presentato alla Quinzaine a Cannes, nel maggio scorso, Neruda conferma ancora una volta le qualità di un regista capace di sorprendere, coniugando con grande maturità una matrice letteraria molto forte (qui in maniera inevitabile) e una visione capace di farsi, sempre e comunque, racconto autonomo di una cinematografia per immagini.

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