New York, il Midwest e gli scrittori americani

PHOTO PETER PEREIRA/4SEE Philip Milton Roth an American novelist that has been writting award winning fiction since 1959 seen at his agents office in New York City.

Quando parliamo di letteratura americana la nostra attenzione, i nostri occhi, scattano senza nemmeno aspettare il via. Ci trasferiamo dall’altra parte dell’Atlantico con il primo volo disponibile. Poco importa se abbiamo investito tutte le nostre fortune per acquistare un biglietto per la peggior classe di viaggio che possa esistere. Fa parte del gioco. Dobbiamo essere lì a costo di venire colti di sorpresa da un qualsiasi tipo di imprevisto. Siamo disposti a tutto pur di riuscire a varcare il confine e trovarci difronte a qualcosa che nella nostra mente si ripropone a cadenza giornaliera, quasi a trasferire le nostre più patetiche aspirazioni nelle mani di un boia pronto a decapitarci quando meno ce l’aspettiamo. Trovare un buon libro, venirne catturati dalla sue pagine, è il peggior guaio che ci possa mai capitare.

Alla lunga lista di cose preziose che riguardano una certa idea di letteratura Made in USA, dal prossimo 31 marzo si aggiungerà uno di quei libri tanto attesi quanto necessari. I nostri occhi saranno tutti sul nuovo lavoro di Giulio D’Antona, mica poco. Non è un mestiere per scrittori, in uscita per Minimum Fax, è quello che tutti i fanatici di questo amato e odiato scenario letterario aspettavano. Parte degli Stati Uniti sono ancora una volta al centro di una faticosa ricerca che vede protagonista la storia, e l’autenticità, di una realtà letteraria da sempre ispiratrice di grandi narrazioni. Un’indagine racchiusa in 346 pagine che ci porta a spasso dalla East alla West Coast, da New York al Midwest, dalla già affermata Jennifer Egan all’esordiente Marco Roth. Giulio D’Antona è andato a intervistare quelle personalità che si possono tranquillamente definire con-le-mani-in-pasta. Scrittori, editori e agenti, tutti disposti a definire i limiti di uno spazio, gli stessi che una volta annunciati verranno puntualmente scavalcati.

Un assaggio di questo lavoro l’abbiamo avuto nel corso degli anni, quando in tempi non sospetti D’Antona “maltrattava” – e chi non ama essere maltratto in questo modo? – noi maniaci dell’America, con i suoi articoli, le sue rubriche e i suoi interventi sui social. Dalle pagine di Topolino a quelle di IL e Linkiesta, contributi disseminati qua e là, fino al blog per L’Espresso Americanish, uno dei nomi che definire azzeccato è poco. Una fonte sui fatti che non ha mai tradito le nostre aspettative di lettori. I suoi pezzi sono appuntamenti fissi tanto da divenire nel tempo sinonimo di garanzia, proprio come accade con il buon giornalismo culturale. A distanza di quattro anni dal suo esordio narrativo con la raccolta di racconti Senza un briciolo di emozione (Eclissi, 2012), Giulio D’Antona torna in libreria interrogando scrittori come Jonathan Lethem e Teju Cole sul variegato ed irresistibile mondo delle scrittura e di tutto quello che attorno ad esso gravita, lo stesso in cui operano gli agenti e gli editori più incisivi dell’intero panorama letterario.

Alla luce di questa prossima pubblicazione, mi torna alla mente un pezzo di D’Antona uscito sul suo blog Americanish. In una chiacchierata con lo scrittore e traduttore Marco Rossari si cercava di delineare il profilo dell’imprendibile Philip Roth. Lo scrittore del Lamento, che aveva bazzicato di più per gli ambienti newyorkesi, era da tempo inavvicinabile. D’Antona chiedeva consiglio a Rossari su come riuscire nell’impresa di strappare anche un semplice incrocio di sguardi al creatore di personaggi quali Portnoy e Zuckerman. Rossari, dal canto suo, affermava quanto lo scrittore di Newark fosse un abile falsario della sua stessa identità, della sua stessa immagine di uomo ottantenne che vaga per chissà quali zone sperdute della città. Ecco, nel corso di questi anni, grazie ad articoli del genere sempre pronti a illustrare le sfumature di una realtà che non cessa di attirare come solo le migliori calamite sanno fare, abbiamo ricevuto degli assaggi di quello che in Non è un mestiere per scrittori ci è finito nelle ultime battute. La raffinatezza di uno sguardo attento e mai banale come quello di Giulio D’Antona ha portato una casa editrice come Minimum Fax – nel suo nome c’è tutto il prestigio che le compete – a pubblicare un’opera che a noi lettori non resta altro che leggere.

Nei mesi scorsi abbiamo avuto la possibilità di conoscere l’idea di Paolo Cognetti sulla Grande Mela con la raccolta New York Stories (Einaudi, 2015), adesso è giunto il momento di conoscere quella di Giulio D’Antona sull’intero ambiente letterario statunitense che non smette di toglierci il fiato ogni volta che si annuncia una nuova uscita. Ad accompagnarlo ci sarà un introduzione di Nickolas Butler, autore di Shotgun Lovesongs (Marsilio, traduzione di Claudia Durastanti, 2014). Le nostre parole, i nostri orizzonti e i nostri limiti si ampliano più di quanto si possa immaginare. In casi come questi le pagine di un libro ci conducono nei meandri sconosciuti, al massimo qualche volta accennati, di una realtà non solo letteraria, ma che nutre il nostro immaginario in tutte le sue forme. Le voci degli scrittori e le loro storie si imprimo sulla carta che compone le pagine che noi sfogliamo, e attraverso queste non facciamo altro che mandare altrove le nostre menti.

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