Niccolò Contessa e l’intimismo di Aurora

La foto di copertina è uno scatto di Gianluca Moro

Tre anni fa, quando ascoltavamo Glamour, senza poter sapere cosa avrebbe significato per noi, avevamo visto qualcosa che premeva per uscire ma che ancora non aveva il coraggio di farlo. Il secondo album è quello più complicato, dicono, pieno di ansia e paura, in cui la riflessione sulle possibili conseguenze blocca certe scelte, quelle che in Aurora, finalmente, si lasciano andare. Aurora è un disco sentimentale e malinconico, in cui l’interiorità di Niccolò Contessa finalmente decide di rivelarsi senza temere più il confronto o, forse, vuole essere un tentativo per capire qualcosa attraverso il riflesso negli altri. Non sappiamo quali tempeste abbia attraversato, da dove provengano certe situazioni e necessità, ma siamo felici di poter finalmente avvertire questa vicinanza liberarsi una volta per tutte.

Foto di Gianluca Moro

C’è qualcosa di più, questa volta, nel modo di Niccolò di allacciarsi al presente, con determinate coordinate e abitudini di ognuno di noi. È un dialogo fondamentale per delineare il mondo che spesso anche lui si trova a vedere da lontano, quella vita dei Baby Soldato che più che abbracciare le armi strafatti di colla condividono un senso di svuotamento totale, fra l’essere catapultati in città diverse senza poterle conoscere, afterparty e necessità di carriera. Corpi destinati, anche loro, a essere mezzi nelle mani di qualcuno che gli fa credere di essere importanti e di successo. Sono i residui di una storia andata male, ma da cui è impossibile staccarsi, che rendono Il posto più freddo una delle ultime canzoni d’amore, col suo sapore salato dell’arrivo della fase down, partorita o meno da quei pariolini che ormai si affacciano ai venticinque con lo stesso disprezzo del loro ultimo romanticismo. Sono queste le dimensioni di sincerità totale che ti fanno bloccare, questa difficoltà a distaccarsi da chi si è perso quando la solitudine sopraggiunge e si finisce nel caos, un’altra delle direzioni fondamentali di Aurora. In questo mondo che sta crollando su se stesso, insieme ai suoi abitanti, Niccolò non abbandona la strada dell’ironia, il suo modo, probabilmente, per dare un senso a tutto quello che non gli riesce di capire. Uno insieme all’altro, fino alla scomparsa totale, nel perdere i rapporti e nella difficoltà di crearli. È l’approfondimento del piano, come strumento, a riempire quei momenti vuoti, come una nuova presenza votata a coprire un torrente di malinconia impossibile da deviare, nonostante tutti i tentativi. Momenti di debolezza in cui cercare il proprio nome su Google che, più che darti un’identità, ti permette di crederti ancora presente in questo mondo connesso, prima della fine. Sono le paure e le cose che lo hanno ferito, a ricostruire il climax discendente di Aurora, che sconfina nel pessimismo più estremo, di cui Sparire sembra essere la serena accettazione, quasi disneyana, che ciò che si ha, alla fine, non sia così male, davanti alla grandezza delle cose che non possiamo controllare, anche dopo un amore definitivamente finito. In silenzio, come conducono molte esistenze, confondendosi fino a trovare un panorama quasi accogliente in ciò che può annientarci.

 

 

È un discorso profondamente intimista, e su cui ci si può sbagliare parecchio, ma la delicatezza con cui Niccolò riesce a lasciare tracce all’improvviso, ci lascia credere di entrare nel suo mondo che vede così complicato, se non per la sua natura stessa, per una volontà di razionalizzare ogni cosa. Come se ci fosse davvero un senso segreto nel nostro vivere, attaccando i segmenti di una realtà che non ha voglia di comprendersi e si limita a lasciarsi al freddo di un’ultima canzone di addio. Allora riesci quasi a capire perché Ultimo mondo non abbia bisogno di parole per arrivare dritto al punto. Ci basta poco, sembra dirci, perché le cose possano cambiare, ma è un sottile avvertimento, nemmeno così tanto gridato, in cui ritrovarsi quando sarà troppo tardi.

Forse una particolarità come la sua non dovremmo nemmeno sottovalutarla, ma lui stesso si rende conto di come, poi, questa possibilità non sarebbe in grado di reggerla davvero. Ogni disco sembra propendere verso questa direzione, a tratti di scoprirsi per poi ritornare nel buio, un pendolo che se oscilla è perché davvero i terremoti non gli permettono più di stare fermo, all’estremo come dev’essere arrivato. Noi non possiamo che stare alle spalle di tutto questo, cercando di dare una motivazione plausibile se quello che stiamo vivendo, estremizzato così, faccia davvero parte della nostra vita. Essere dimenticati – risuonano ancora le parole di FBYC di Glamour – è un rischio che corriamo tutti, e forse Niccolò lo sa meglio di noi.


42 Records, 2016

 

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