Nick Cave & The Bad Seeds – Skeleton Tree

Il 14 luglio del 2015, dalle scogliere di Ovingdean Gap, a pochi passi da casa, Arthur Cave, quindici anni, il ragazzino biondo che in 20000 Days on Earth strappa un pezzo di pizza al padre che con un braccio gli cinge le spalle, precipita (sotto l’effetto, si scoprirà poi, dell’LSD) e muore poco dopo per le ferite riportate.

L’addio più grande, quello meno aspettato, quello tragicamente innaturale si consuma in un pomeriggio d’estate, alla fine della scuola ed è un dolore enorme. Una vita attraversata in maniera selvaggia, l’eroina, l’arte, tante città e tante donne, amici e separazioni, che finalmente aveva trovato un sereno approdo a Brighton con i suoi cieli cangianti e la sua tranquillità a spegnere il fuoco di quest’animula vagula blandula nascosta nel corpo dinoccolato di uno dei più grandi interpreti e autori della storia del rock e del cantautorato, si spezza improvvisamente in due.

Skeleton Tree è iniziato a nascere qualche mese prima negli studi di Brighton, le sessioni sono state riprese nell’autunno dello stesso anno ai La Frette Studios, in Francia, quindi ultimate a Londra all’inizio del 2016.

Otto canzoni per poco meno di quaranta minuti di musica. Dov’è Nick Cave, cos’è Nick Cave oggi? Cos’è rimasto del predicatore vestito di nero che ha infiammato i palchi del mondo intero?

Skeleton Tree è un disco che sembra essere la colonna sonora di un paesaggio lunare, di un mondo dall’altra parte della vita, che Cave ha visto e vede ancora, quello del dolore e del lutto. Tutto è etereo e delicato, la musica è ridotta all’essenziale, e ancora una volta i Bad Seeds si dimostrano, oltre che musicisti sopraffini, soprattutto artisti capaci di piegarsi con abnegazione e infinite capacità alle indicazioni del loro leader.

Non c’è traccia del predicatore dinoccolato che avanza sul palco per incantare il pubblico con il suo credo in un mondo di derelitti, fuggiaschi, fuorilegge, assassini e prostitute, c’è, invece, un uomo con un cappello in mano in un angolo della sua stessa esistenza che a voce bassa racconta il suo dolore, il distacco improvviso, il solco scavato, lo squarcio che si è aperto sotto la casa felice di un uomo che passati i cinquanta aveva una moglie amata oltre ogni possibile descrizione che gli aveva dato due gemelli. Un uomo che aveva lasciato dietro di sé gli anni bui della dipendenza dall’eroina e dai propri demoni.

È un disco profondamente triste, malinconicamente disperato. Serio e rigoroso nel raccontare il vuoto, la mancanza, alla quale non rinuncia perché sa che, se è vero che ci sarà un momento in cui la vita tornerà a bussare alla porta, quel momento verrà da solo senza affrettare i tempi. In un’epoca di efficienza e velocità, in cui il lutto è visto come un impedimento da superare in un tempo brevissimo, come prescritto da discutibili filosofie new age, ecco che Cave, con il suo bagaglio di letture bibliche, di città abitate in giro per il mondo e di luoghi immaginari in cui ha vissuto, ci regala una perla di livida bellezza, di estrema profondità e raggelante levità.

Jesus Alone è una lunga invocazione al giovane figlio perduto immersa in un’atmosfera di sospensione e incredulità (You’re a young man waking / Covered in blood that is not yours), di spaesamento e smarrimento davanti alla peggiore delle morti, al più straziante degli addii. Una tensione sorretta dai loop di elettronica affidati a Warren Ellis, alle spazzole leggerissime di Wydler, alle percussioni di Sclavunos, agli archi diretti ancora da Ellis, attraversata da un rumore di fondo e da un segnale lontano come di allerta, di pericolo, spezzato da pochi accordi di pianoforte durante l’invocazione al figlio che non potrà più rispondere.

Saturn Rings si apre su spaziali ghirlande sonore che si appoggiano su un beat che lascia lentamente spazio a melodie dolcissime, a una lenta e confusa presa di coscienza (Or maybe I’m just too tongue-tied to drink it up and swallow back the pain). Una donna nata per questo momento (difficile non pensare a Susie Bick, al dolore della madre) che deve fare i conti con l’inaccettabilità del risveglio (Up and out of the bed and down the hall where she stops for moment and turns and says “Are you still here?”)

Girl in Amber è uno dei pezzi più belli del disco e regala una tra le più poetiche e delicate metafore della separazione che il dolore provoca in chi lo prova, quella sensazione terribile di essere separati dal resto del mondo come a essere intrappolati nella lucentezza dell’ambra, in uno stato di disperazione ma anche di languore grazie alla protezione e al calore di questo guscio scintillante che ci isola dal mondo e dal tempo. Il nuovo corso della scrittura di Cave, intrapreso già da qualche anno, che si è fatto meno narrante e più diretto, lascia così trapelare segni più netti, un telefono che non suonerà più a rendere reale l’assenza del figlio nelle piccole cose quotidiane. Ma anche l’amore che tiene uniti e l’invito a lasciarsi andare (And if you want to bleed, just bleed / And if you want to bleed, not breathe a word / Just step away and let the world spin). La musica si fa quasi silenzio, preghiera.

Un segnale dallo spazio o da una sala di terapia intensiva, come fosse una delicata introduzione industrial, apre Magneto. Leggeri arpeggi di chitarra fanno da contrappunto al piano che dissemina scintillanti cristalli. Una frase, “I move, you move and one more time with feeling”, che dà il titolo al documentario One More Time With Feeling, presentato al Festival di Venezia (in Italia arriverà per due giorni il 27 e il 28 settembre) è la chiave di volta dell’intero disco. Nick Cave è, tra i grandi cantautori, quello forse più legato alla parola, a un tentativo costante di costruire un mondo letterario in cui rifugiarsi dove esiste un Dio – dirà – che tutto sa, e che da quest’altra parte non esiste. La parola come atto demiurgico di un mondo in cui esistere e in cui far confluire ogni emozione e ogni sentimento, trasfigurati in storie e racconti che solo apparentemente sembrano parlare di altro.

Ma, per la prima volta, il velo tra i due mondi sembra essersi squarciato: We saw each other in heart and all the stars have splashed and splattered ‘cross the ceiling, il dolore è un’apocalisse che stravolge cielo e terra e spezza il gioco della rappresentazione.

Apocalisse che appare con ancora più forza nella successiva Anthrocene, scenario deserto, oscuro e freddo di un mondo futuro in cui gli uomini brancolano alla ricerca di un amore: All the things we love, we love, we love, we lose / It’s our bodies that fall when they try to rise / And I hear you been looking out for something to love / Sit down beside me and I’ll name it for you.

Toni da drone music aprono I Need You, richiesta di aiuto di un uomo che non riesce a trovare la luce (Nothing really matters when the world you love is gone) e che cerca disperato qualcuno che riesca a ricucire la ferita dell’assenza.

Distant Sky è l’altra punta di diamante del disco, meraviglioso duetto con Else Torp (soprano danese ascoltata ne La Grande Bellezza dove è magistrale interprete di My Heart’s in the Highlands, di Arvo Pärt). Un dialogo tra un padre e una madre obbligati dalla vita ad affrontare il suo più grande mistero in uno scenario che comincia a cambiare, come se su quel pianeta oscuro fosse finalmente arrivata la luce del sole, delle stelle. Il sorgere del sole si fa speranza nella voce bellissima della Torp. Al cuore ghiacciato di Nick Cave sembra non bastare: They told us our gods would outlive us / They told us our dreams would outlive us / They told us our gods would outlive us / But they lied pronunciano le sue labbra ancora fredde della notte e del dolore e di una promessa che non è stata mantenuta, ma è ancora la madre a indicare una pur fievole speranza (Soon the children will be rising, will be rising. This is not for our eyes) come a credere in una resurrezione, in un’altra vita e il film in bianco e nero di Andrew Dominik per pochi attimi prende colore inquadrando la casa, la città, la costa e infine la terra vista dallo spazio.

L’omonima Skeleton Tree chiude il disco. Tra lo smarrimento e il dolore che attraversano tutte le tracce, sembra farsi strada un principio di rassegnazione e una presa di coscienza sulla realtà. Sulle scogliere il richiamo del padre (I called out, I called out / Right across the sea / But the echo comes back in, dear / And nothing is for free) diventa un modo per sentirlo ancora vicino.  La notte sta passando e alla fine l’ultimo verso lascia un debolissimo, quanto importante, messaggio di speranza e di salvezza per chi rimane: And it’s alright now.

Al sedicesimo disco in carriera con i Bad Seeds, Nick Cave riesce ancora una volta a mantenere altissimo l’equilibrio tra il cambiamento e una cifra stilistica riconoscibile tra mille. Rinunciando del tutto ai toni alti, ai parossismi della prima parte di carriera, Cave con Skeleton Tree si pone nella scia del precedente Push The Sky Away rendendo le atmosfere ancora più rarefatte (e più elettroniche). Evoluzioni in costante mutamento che altri dischi in passato, da The Good Son a Nocturama, hanno mostrato essere mai direzioni definitive quanto piuttosto possibili accenni di percorso, curve nella memoria e nel presente.

È un disco difficile, lontano, forse più di tutti gli altri, dal Cave cristallizzato nell’immagine degli anni ottanta. E anche per questo è un disco importante che incute in chi lo ascolta e in chi lo ha realizzato (commovente la presenza di Warren Ellis e il suo sguardo premuroso sul collega, sul mentore e sull’amico) un profondo rispetto verso la capacità dell’uomo di raccontare il suo dolore con estrema grazia e severità, senza cadere nell’osceno di un dolore esibito ma non tradendo, ancora una volta, se stesso e la necessità vitale di raccontarsi e di mettere tutto se stesso dentro una canzone.

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