Nicolas Jaar e la musica che unisce l’America da Sud a Nord

Uno degli aspetti che trovo più affascinanti nella musica elettronica è quello di agire su un piano emozionale diverso rispetto ad altri generi: come linguaggio musicale somiglia più a quello della classica che al rock o al folk. Inoltre questo linguaggio ha a che vedere con quel certo “clima digitalizzato” in cui siamo compromessi nella contemporaneità. Anche se le direzioni esplorate dell’elettronica sono molteplici, uno di quelli che riescono meglio a evocare un sincretismo tra mondi e suoni mi sembra Nicolas Jaar.

L’uomo, la macchina, il sax 

Il primo mondo naturalmente riguarda la musica e il suo aspetto contemporaneo. Nicolas Jaar è un talento, non solo perché riattualizza il discorso emozionale della musica classica per la nostra epoca, ma anche perché finisce per “importare” in quel linguaggio molto di quanto – nel frattempo – è accaduto nella storia della musica. La sua musica è ricca di fusioni e contaminazioni. L’uso della voce come strumento, il rock’n’roll che riesplode deciso, in particolare nella parentesi Darkside, quella posa da rockstar con cui – microfono alla mano – avanza sul palco, voce baritonale alla Jim Morrison, anche se dietro di lui non ci sono Manzarek e soci a tenergli il ritmo con chitarre e batterie, non c’è il loro sudore fisico. Dietro Jaar ci sono tastiere, sintetizzatori, effetti, computer: non c’è nessun uomo, ma macchine sonanti. Eppure ad ascoltare Nicolas Jaar sembra di assistere al concerto di una live band. Eccomi, al centro del palco a cantare, mentre dietro di me si animano musica e macchine: non c’è nessuno, c’è questo nuovo secolo vibrante con tutte le sue automazioni, eppure vi piace quello che state sentendo.

Ma in questo rapporto di fusione tra uomo e macchina, arriva anche il momento in cui Nicolas Jaar prende in mano il sax e lo suona: succede per esempio che in The Governor si mescolino i suoni caldi di effetti, piano e sassofono – che sembra quasi un grido straziante (o un verso animale oscuro) quando parte, ma detta il ritmo al pezzo quando si mescola alle note della tastiera. E così, nell’immaginario e nel mondo-Jaar, il sax diventa uno strumento quasi carnale, che a tratti sostituisce la voce. È interessante notare come il sassofono stia entrando prepotentemente nella contemporaneità musicale, dall’epica di Kamasi Washington, a Pj Harvey, o l’ultimo album di Bon Iver. Del resto Jaar non ha mai negato di essere stato ascoltatore ossessionato di musica africana, e soprattutto di quel jazz etiope dove l’uso del sax somiglia a un pianto o un lamento. Mescolare il suono di quel sax con la sua vocazione giovanile da pianista ha creato una meravigliosa combinazione.

Foto di Alessia Naccarato

 

La musica crea se stessa” – Jaar è convinto che esista un processo miracoloso in cui la musica a un certo momento esce semplicemente allo scoperto. Il discorso che riesce a imbastire lui con l’elettronica è costruito su una fusione di suoni: evocare un linguaggio musicale classico, fonderlo all’occorrenza con il songwriting, mescolare tutto a ritmi tribali dance, riunire le piste da ballo e il jazz, sintetizzare mondi, esperienze e suoni. La forza della sua musica – e dei suoi sold out – risiede in questo potente mix, che ha la capacità di agitare “sentimenti” e sensazioni differenti in persone disparate. Ognuno in Jaar cerca e trova qualcosa. La giovane fanciulla che balla sotto palco è probabilmente alla ricerca della spensieratezza agitata della musica dance: questo non vuol dire che non sia consapevole del miracolo di una performance live di Jaar, e di quanto lui resti nettamente superiore a un dj da dancefloor. In lui si mescolano tre figure e tre anime: dj, producer e songwriter.

La dimensione live

Penso che tutti quelli che vanno nei club abbiano il cuore a pezzi. Allora ci sono solo due cose: hanno il cuore spezzato e vogliono dimenticarsene, oppure dobbiamo dare a loro un ambiente dove possono avere il cuore spezzato” – è nella dimensione live che la musica di Jaar trova il suo senso compiuto, non solo perché è dentro il club che dimentichiamo i nostri problemi grazie ai ritmi e ai suoni, ma perché la musica di Jaar nasce per essere suonata dal vivo. Naturalmente è molto bello ed entusiasmante anche ascoltarlo in casa, o in giro per città e paesi armati di cuffie: ci si dedica con minuzia a ogni suono, si aprezza questo aspetto di mescolanza insomma. Tuttavia è nel live che la sua musica esplode veramente, e non è certo un caso se – in controtendenza alle operazioni commerciali (e social-oriented) di Radiohead e Arcade Fire in fase di lancio di nuovi album – Jaar abbia scelto un live al Kitchen di New York per presentare al pubblico un nuovo disco Ambient la settimana scorsa. La stessa New York dove tutte le sue date sono andate sold out, prima di arrivare in Europa, suonare per tre sere (tutte sold out) a Parigi, e poi volare a Torino per il Club to Club Festival (sold out, per cambiare).

 

Nicolas Jaar è un animale da palco. Dal vivo la sua musica ha un doppio effetto: agisce sia a un livello meta-fisico (riflessivo) che a uno più fisico (selvaggio). È un’esperienza sonora, in cui sono compromesse le orecchie, e le vibrazioni che naturalmente si espandono al cervello e al corpo, ma anche un’esperienza visiva, perché quando Jaar compare sul palco tutto è buio, il suo corpo è un’ombra appena illuminata sul palco, un corpo che si fa tutt’uno con le sue macchine. Da questo momento in poi sarete catapultati in un’altra dimensione, sembra sussurrarci Jaar. Ed è così: la mente umana, così invasa dalle sue abitudini e ossessioni quotidiane, per un attimo si stacca per entrare in un nuovo spazio geometrico, che somiglia molto a quel concetto di Space is only noise che ha dato il titolo al disco di esordio di Jaar.

Questo spazio – questo spazio che condivideremo stanotte, questo palco, questo club – è rumore, lasciatevi invadere, potete vederlo (“if you can see”), potete lasciarvi conquistare da questo rumore, e accedere a un’altra dimensione. Ora, prima di cadere tutti insieme nell’equivoco delle parole (in questo caso le mie), la dimensione di cui stiamo parlando è tutta musicale. Lo spazio è rumore, le leggi della fisica le lasciamo in cantina, tutto quello che conta è abbandonarsi al piacere di questo linguaggio misterioso. È per questo che, proprio mentre siamo al culmine di quel viaggio che ci porta verso visioni nuove e insondabili, trascinati dai suoni, d’un tratto pure il corpo prende a tenere il ritmo in modo naturale. Lui sa come guidarci in quello che è un viaggio sonoro: c’è qualcosa di sciamanico nell’approccio di Jaar alla musica: sa quando accelerare il ritmo e quando frenarlo, riesce a farlo nel punto esatto. Space is only noise – traccia che chiude i suoi live – dal vivo risulta molto più accelerata rispetto al disco. Una grande festa conclusiva. I cuori spezzati e le anime erranti da club hanno dimenticato tutto.

La questione politica

Cile / New York.
Jaar è giovanissimo (è nato nel ’90 a New York) ed è già un talento della musica: perché mai dovrebbe sentire l’esigenza di fare musica impegnata? – Eppure lo scorso anno ha fatto uscire Sirens, rievocando insieme quelle che sono le sue origini cilene, e un evento storico dirompente per la storia del Cile come quello del referendum del 1988, con cui il popolo disse NO al dittatore Pinochet. “Volete che Pinochet resti al potere per altri otto anni?”, era questa la domanda a cui doveva rispondere la popolazione cilena. Dire no significava qualcosa di diverso da una semplice negazione, era un sì alla felicità dopo terribili anni di dittatura politica. Tra gli esuli cileni del periodo che succede al golpe di Pinochet in Cile c’è anche il padre di Nicolas, l’artista Alfredo Jaar, che negli Ottanta fugge a New York. Uno dei suoi lavori più importanti è A Logo For America: si tratta di un’opera visuale proiettata sugli schermi di Times Square nel 1987 che contesta il concetto stesso di America intesa come Stati Uniti. Uno dei messaggi riprodotti dallo schermo elettronico è: THIS IS NOT AMERICA, e potete ritrovare il concetto e la scritta sulla copertina di Sirens. Del resto Alfredo è l’autore degli artwork di copertina del figlio sin da Space is Only Noise.

 

Si può dire che la famiglia Jaar continui a sentirsi legata alle proprie origini cilene. Nicolas recupera anche la lingua spagnola per l’occasione: lo ha fatto anche in passato con Mi Mujer o El Bandido, ma con Sirens tutto è amplificato. “Ya dijimos No, pero el Si està en todo” – da cittadino del mondo, musicista newyorkese e cileno insieme, Nicolas Jaar è il perfetto prototipo delle identità contemporaneee. La sua storia è cilena e statunitense insieme: si può essere cileni e statunitensi contemporanemente, senza che vi sia una rottura o una frattura interiore. Così Sirens è un album che recupera un pezzo di storia americana: americana perché l’America è l’intero continente che va dalle Ande su fino al Canada; americana perché la storia dei golpe sudamericani si porta dietro anche il marchio del Nordamerica; americana perché il Novecento è stato il secolo più americano di tutti, il secolo per cui forse oggi state indossando scarpe americane, sentendo musica americana, e pensando a cosa comprare di americano; americana nel senso in cui Alfredo Jaar proietterebbe sugli schermi provocatoriamente le parole: THIS IS NOT AMERICA.

Può la musica elettronica essere politica? Si può animare una certa forma di protesta con la musica strumentale?”, le domande da cui è partito Nicolas Jaar per arrivare a Sirens erano queste. Certo, per il folk era facile fare canzoni di protesta, e persino il punk e il grunge potevano trovare soluzioni “politiche”, ma come riuscire a far tutto questo con l’elettronica? “Sento un’affinità con l’aspetto politico della musica dance-forse può diventare sempre più un luogo di protesta”, in quella che è diventata un’ormai famosa intervista a Pitchfork Jaar presentava così il nuovo lavoro Sirens, dicendo di non essere sicuro del genere di risposta e di approccio che il pubblico poteva avere di fronte a un lavoro del genere. Se i dischi precedenti di Jaar (gli EP e l’album di esordio) erano estremamente intimi, con Sirens arriva una piccola svolta: è il disco in cui Nicolas fa i conti con un’identità ritrovata, si apre al mondo, riscopre il Cile – a cui è sempre stato legato a doppio filo, trasportando tutto questo nella musica, insieme a un episodio devastante come quello della dittatura di Pinochet. L’operazione è estremamente complessa per un disco di musica elettronica, che fa anche ballare in pista.

Così l’effetto di ritrovarsi a muoversi su un pezzo come Three Sides of Nazareth che ripete parole come “I found my broken bones by the side of the road”, è straniante. Ma è proprio quello che vuole da noi Nicolas Jaar: che teniamo a mente che non siamo soli su questa terra, siamo parte di una storia più grande, fuori da questa sala e questo palco e questo concerto magnifico, si combattono altre storie. THIS IS NOT A LIVE SHOW, è un’epopea intera. “L’intera America Latina è seminata con le ossa di questi giovani dimenticati”, scriveva Roberto Bolaño a proposito di una parte di storia americana. Ed è paradossale quello che ha voluto fare Jaar con Sirens: ricordarci di queste ossa anche mentre balliamo. E allora l’ambizione di Jaar di un club come luogo dove dimenticare il proprio cuore a pezzi, si mescola a quella di un club come possibile luogo di protesta. Una protesta animata dai ritmi del computer che ci rende indietro anche una piccola History Lesson:

Chapter one: We fucked up.

Chapter two: We did it again, and again, and again, and again.

Chapter three: We didn’t say sorry.

Chapter four: We didn’t acknowledge.

Chapter five: We lied.

Chapter six: We’re done.

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