Riascoltare Nils Frahm alle porte del nuovo album All Melody

[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=#ffffff “” class=”” size=20px””]Storia di un ragazzo tedesco che amava il jazz, suonava il piano con immenso talento, e di come sia riuscito a conquistarci tutti con la sua musica[/perfectpullquote]


Tre giovani musicisti al pianoforte in occasione dell’Autumn Falls Festival di Bruxelles del 2010. Un’improvvisazione a tre che travolge, entusiasma ed emoziona. Stiamo parlando di Olafur Arnalds, Peter Broderick e Nils Frahm. Tre musicisti e compositori che stanno facendo la storia dell’ultimo decennio musicale e che a loro modo hanno contribuito a ridefinire i paletti di genere e performance.

Nils Frahm, classe 1982, è colui che probabilmente fra i tre ha seguito il percorso più complesso e allo stesso tempo originale. Ciò che ha creato con la sua musica ha “sbeffeggiato” ogni definizione di genere e che rende ridicoli i termini come modern classical o ambient applicati per etichettare la sua musica.

Dopo un lungo silenzio, il musicista tedesco (nato ad Amburgo e poi trasferito a Berlino) ha annunciato l’uscita di un nuovo album. All Melody uscirà ufficialmente il 26 gennaio per la Erased Tapes. Ha anche annunciato un nuovo tour mondiale che toccherà l’Italia per una sola data a Milano, il 2 maggio 2018.

Come per ogni cosa, per comprendere il percorso di Nils Frahm bisogna tornare alle origini e la sua storia è più colorita di quanto possiamo pensare artisticamente parlando. Suo padre era un noto fotografo e un musicista autodidatta e collaborava con la storica etichetta jazz ECM. E proprio il jazz (soprattutto quello fusion anni ’70) è stato uno dei primi riferimenti, soprattutto per quanto riguarda la forma libera, che ha forgiato la mente e lo stile di Frahm.

Il primo strumento che ha suonato è il bongo ma è il pianoforte che lo porta ad approfondire quel suo interesse per la musica. Una preparazione classica che voleva interrompere (voleva diventare un pilota) e poi rirpresa grazie all’intervento del padre che comprò un nuovo pianoforte. Nils Frahm spiega bene a Interview Magazine cosa non trovasse interessante nella preparazione accademica:

[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”” class=”” size=””]“I had piano lessons when I was a kid for a couple of years. And then I worked more with people from my school on band projects. Because of that, I needed to know more about music theory. So I had classical lessons first. And then some jazz lessons. After that, I wanted to study. I looked at a few universities. But there’s only classical music you can study. Full-on classical or full-on jazz. Nothing in between”.[/perfectpullquote]

Con queste parole spiega chiaramente la sua propensione alla ricerca e all’impossibilità di diventare artisti solo col semplice studio. L’importanza per lui di farsi contaminare e di contaminare (anche con molteplici collaborazioni), di appassionarsi a un qualcosa e riprodurlo in un modo proprio. Così il giovane Frahm inizia a coltivare la sua volontà di ricerca attraverso diversi progetti che attraversavano il jazz, l’hip-hop, l’elettronica e anche il punk. Tutto influenzerà il suo percorso e un ruolo particolare lo avranno anche l’ascolto di Tangerine Dream e Kraftwerk. I primi per come organizzavano gli stage dei loro live e i secondi perché si costruivano i propri strumenti. Questi due aspetti saranno fondamentali nello sviluppo della sua peculiare carriera perché il live diventerà anche fonte della sua musica e la maggior parte della strumentazione usata è costruita su misura per riprodurre determinati suoni.

Il compositore tedesco dichiara sempre che l’improvvisazione è un fattore determinante per la sua arte e che anche nei live si fa trascinare da questo aspetto. Non c’è mai uno studio a tavolino, ma un’espressione del momento.

[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”” class=”” size=””] “My music wants to be a physical force, which can be quite heavy, and I need a laugh.” – The Guardian, 2016   [/perfectpullquote]

Con questa idea così priva di barriera e piena di spazi da riempire, Nils Frahm cerca di teletrasportare la sua interiorità attraverso una ricercatezza e una complessità che però non penalizzano la fruibilità del prodotto artistico.

 

Il primo lavoro solista, Streichelfisch (2005), creava già le basi per il suo futuro: forti movimenti elettronici, lievi destrutturazioni che si alternavano a momenti più quieti ed eterei. In Electric Piano del 2008 (anno in cui darà vita al noto Durton Studio) c’è una concentrazione maggiore sull’esplorazione del pianoforte, anche se il lavoro mette più in risalto il suo virtuosismo e la tendenza a minimizzare i suoni (che approfondirà con il solo pianoforte in Screws del 2012). Il salto vero e proprio avviene quando Peter Broderick (con cui poi fonderà il progetto Oliveray) segnala alla giovane etichetta Erased Tapes l’artista tedesco. Così comincerà una lunga collaborazione che porterà alla consacrazione di entrambi.

Il primo risultato di questa collaborazione è Wintermusik. Tre tracce che vedono un Frahm che rafforza il suo stile-non stile: minimalismo ricamato, non isolato e che si arricchisce o si “svuota” col passare dei minuti. “Tristana”, la traccia più lunga dell’EP, non fa pesare i sui 17 minuti trasformandosi quasi in una narrazione dove le sfumature dettano la storia e il suo contorno.

[perfectpullquote align=”right” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”” class=”” size=””]“Regardless, however, I still listen to acoustic music with electronic ears. I still love electronic and experimental music and love treating acoustic music as though it were electronic and vice verse.”[/perfectpullquote]

 

 

Le modalità di ascolto e di pensare la musica acustica è stato probabilmente il passaggio che ha reso il suo modo di proporre la sua composizione fluida fra i generi, in cui non solo è difficile comprendere esattamente la fonte del suono ma diventa addirittura irrilevante perché l’esperienza d’ascolto, il dettaglio unito al quadro generale diventa l’unica cosa che conta.

Questo approccio viene riversato in altri due lavori del 2009. Il primo è The Bells (Kning Disk) che introduce un altro tema caro a Frahm: il collegamento fra silenzio e suono. Prendete un brano come “Dedication, Loyalty”: il piano intreccia le note su diversi volumi ma l’incrocio più evocativo è quello con lo spazio vuoto, impercettibile e roboante allo stesso tempo. Non che prima altri non ci siano arrivati a questo ma ciò che rende unico il suo suono è la capacità di rielaborazione, la gestione degli spazi che sono diventati in poco tempo un marchio di fabbrica. Tutto questo lo chiarisce in un’intervista del 2016 a The Talks:

[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”” class=”” size=””]“With composition, I’m doing something I’ve learned from other musicians, I’ve learned from other artists, I’ve learned from life. Most of my musical ideas are coming from other people’s musical ideas. And so we are all connected. It would be silly to say that it’s all mine. Nothing really is mine. There are 12 notes in an octave. Was that my idea to use 12 notes in an octave? No, but I still use it. For me, it’s actually a comforting thought that I’m not doing something totally, totally unique. You only exist through all the beautiful music you’ve heard. All the boring experiences and all the beautiful experiences I’m having… Everything jumps in as a source of inspiration. If it sounds right, then I’m happy, no matter how I got there. I just want to make beautiful music”[/perfectpullquote]

 

Nel 2009 c’è anche la collaborazione con la violoncellista tedesca Anne Muller nell’album 7 Fingers dove il livello di sperimentazione si spinge leggermente oltre dando una ricetta alla miscela pianoforte, elettronica e violoncello. Una rilettura della congiunzione che si focalizza soprattutto su toni oscuri ma non decadenti, nervosisismi frenati e destrutturazioni melodiche.

Il 2011 è l’anno che lo porta ad essere conosciuto ad un pubblico più vasto. La Erased Tapes pubblica Felt, l’album che possiamo considerare il vero debutto e che consolida tutte le esperienze precedenti. Il suono elettronico è al servizio del suono acustico e viceversa. Un mutuo scambio il cui prodotto è l’estasi artistica. Rappresentativa è la costruzione meticolosa di “Kind” con un pianoforte quasi costante con una frammentazione delicata e soave, il flusso ambientale di “Less”, e l’atmosfera magica di “Pause” che perfeziona ulteriormente quel discorso sull’acuratezza della gestione dello spazio.

Si spinge oltre quando concretizza la sua collaborazione con l’amico Olafur Arnalds con l’ep Stare nel quale flussi ambient, accenni di elettronica “spinta” e magie pianistiche si realizzano e fondono a quattro mani. Una ulteriore base per quello che probabilmente resta il suo capolavoro ad oggi. Si tratta di Spaces uscito nel 2013 e che rappresenta il sunto del suo modo di vedere la musica e in generale l’arte.

[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”” class=”” size=””]“For Spaces, I have this argument with myself: Is it, or is it not possible to isolate sound recording from live concerts, put it out of context, where it has happened, and then put it into a medium where people can listen to it whenever they want— while they’re working, while they’re cleaning, while they’re having dinner. The music I do in live performances is made for a specific situation. I know that people are sitting down and shutting up and they’re with me for 90 minutes. They’re totally with me. Whatever I do, I know they have my attention and they follow my pace” (Interview Magazine, 2013).[/perfectpullquote]

 

Il disco è stato registrato live nel corso di più di due anni e attraverso l’utilizzo di diverse modalità fra cui registratori a cassette. Spaces è la massima espressione del suo modo di esprimersi: c’è l’improvvisazione, c’è la sperimentazione, c’è l’assenza di un copione pur essendo tutto meticolosamente al suo posto, c’è il silenzio a lui caro e la carica emotiva dei suoi spettatori. Un cerchio che si chiude e allo stesso tempo si riapre. Il video di “Hammers” (e lo stesso dinamismo del pezzo), la persistenza e il crescendo di “Says”, la solennità di “Ross’s Harmonium”, il minimalismo pianistico di “Over There, It’s Raining” e “Went Missing”, l’assetto “rivoluzionario” di “For – Peter – Toilet Brushes- More”. Tutte impronte di un’artista che reinventa se stesso, che afferma la sua personalità senza aver paura di assomigliarsi o di allontanare quella che è la sua immagine artistica.

E questo si riflette anche in altri progetti successivi: nel 2015 fonda il Piano Day con cui invita ogni anno ad esprimere tutte le sfaccettature che il pianoforte può regalare. Una celebrazione di uno strumento di cui più volte lui ha svelato le diverse facce. E per l’occasione pubblicò l’album Solo. Nel 2016 torna con il progetto Nonkeen in collaborazione con i due amici di infanzia Frederic Gmeiner and Sepp Singwald. Un progetto che si focalizza maggiormente su diverse trame e ritmiche elettroniche.

Il 2018 ritroveremo l’artista tedesco con il nuovo album All Melody per il quale è stato ospite del Saal 3 di Berlino, uno spazio facente parte del complesso Frankhaus (vicino al fiume Sprea). Ha passato in questo luogo la maggior parte del tempo, ristrutturando l’intero spazio per renderlo idoneo al suo lavoro. Ha costruito appositamente anche un organo a canne. Tutti elementi che ci fanno intuire che la sua voglia di esplorare e la correlata spontaneità e imprevedibilità non si sono arrestate. Tre caratteristiche che hanno fatto grande, in poco tempo, un talento.

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