Una ninfa votata al rock| Florence and the Machine al Pala Alpitour, Torino

Chi non ha mai sentito l’esigenza di cantare a perdifiato una canzone dei Florence and the Machine scagli la prima pietra. Riprodurre la voce da mezzosoprano di Florence Welch è alla prova dei fatti impossibile, ma la questione non ha mai ostacolato probabilmente nessuno. Mentre superiamo lo Stadio Olimpico e iniziamo a correre, molti di quelli che si trovano al Pala Alpitour di Torino per la seconda delle due tappe italiane dell’How Beautiful Tour – la prima il 13 aprile all’Unipol Arena di Bologna – hanno già cominciato a scaldare ugole non proprio allenate.

Man mano che, però, aumentiamo il passo, l’unico suono davvero riconoscibile rimane il timbro della cantautrice londinese, lontano e chiaramente isolato dal brusio del pubblico. Sulle note di Ship to Wreck arriviamo decollando per poi scivolare qualche istante dopo, facendoci largo tra una folla accesa e irrequieta. La corrente umana si ferma come ipnotizzata dallo sfondo di paillettes che si riflette sul suo abito oltremare decorato di pizzi e trasparenze. Come un cavallo selvaggio al galoppo, Florence Welch attraversa da un’estremità all’altra il palco, il suo habitat naturale.

La trasformazione in una stupenda e radiosa ninfa dei boschi è in atto e gli sguardi non possono che rimanere puntati su di lei per tutta la durata dello show. Pochi metri indietro ci sono i brillantissimi componenti della “macchina” che dai primi minuti dopo le nove si impegnano a far divampare il palazzetto torinese. Vanno in fondo e centrano l’obiettivo. L’intro di Rabbit Heart (Raise It Up) inizia a riecheggiare dalla platea agli spalti quando i polpastrelli dell’arpista Tom Monger sfiorano le corde del suo strumento. Nel frattempo Florence cambia vorticosamente registro vocale, passando da un’intonazione cupa ad arie leggere e sempre più acute.

Qualcuno da sotto il palco approfitta della pausa tra un brano e l’altro per consegnare personalmente nelle mani della rock star inglese una busta. “It’s for my mum” ripete Florence accogliendola con sincera commozione, mentre inizia poi a raccontare di come sua madre, docente universitaria esperta in storia rinascimentale, l’abbia condotta alla scoperta dell’Italia, del suo patrimonio artistico e soprattutto delle sue chiese durante le estati della sua infanzia. Il dialogo con il pubblico si alterna a momenti adrenalinici, in cui viene da domandarsi come sia possibile avere ancora tutto quel fiato per cantare Shake It Out, Sweet Nothing e una struggente versione di You’ve Got The Love dopo aver saltato ed eseguito piroette quasi perfette.

Dopo quasi due ore e mezza di show non c’è segno di cedimento da parte della diva dai capelli fulvi che dimostra non solo con il sudore di questa serata, ma anche con le fatiche accumulate negli anni, a partire dal debutto di Lungs fino ad arrivare all’uscita di How Big, How Blue, How Beautiful del 2015, di meritarsi ogni singolo applauso di chi è arrivato qui per vedere lei e la sua band. Non si tratta soltanto di uno degli spettacoli qualitativamente più belli a cui abbiamo avuto la fortuna di assistere, questo concerto rappresenta anche la prova di una formazione ostinata a comunicare attraverso i suoi testi un messaggio di pace svuotato dalla retorica canonica.

Lo conferma il fatto che tutti – anche chi non sa le parole delle canzoni o sembra essere qui un po’ per caso – sentano il desiderio di cantare, alzarsi in piedi e di sventolare in aria lanterne luminose. Quando i Florence and the Machine rientrano in scena per il bis ed eseguono What Kind of Man e Drumming Song sappiamo che presto dovremmo salutarci, anche se non vogliamo dire addio a un gruppo che riesce così facilmente a scaldarci il cuore. Torneranno, lo sappiamo, piombando all’improvviso nelle nostre vite, a piedi scalzi sul pavimento.

Fotografie di Alessia Naccarato

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