Non devi per forza mostrarlo

Una struttura quando cambia non fa mai rumore. Le ci vogliono anni di preparazione prima che accada, finché non si assimila a tal punto da sovrastare le altre che, prima, avevano sempre sorretto il sistema. Il novecento è finito, e non solo per i suoi grandi ideali. Si sono persi, o soltanto trasformati, diluiti in pillole da novanta secondi, quei medium che prima rappresentavano una vita nella sua dimensione personale e culturale. L’immediatezza ha in qualche modo sostituito la fatica, il camminare per chilometri solo per raggiungere una biblioteca o l’annotarsi brani di certe canzoni che se si era fortunati passavano una o due volte per radio, e con lei anche il senso che ne si dava, riempiendo apparati di memoria estemporanei nati per non lasciare traccia. Una struttura non necessariamente migliore, ma solo diversa. Doveva essere questo, il secolo delle competenze e, invece, più ci stiamo evolvendo e trasformando meno ci facciamo affidamento da quando tutti possono fare tutto senza riserve, perché un pubblico c’è sempre. Sperduto a paesi di distanza, solo più solo, senza modo per uscirne. Sono questioni di mercato, o forse solo di incoscienza, quelle che hanno trasformato il racconto della propria quotidianità nella costruzione di epopee personali, in cui i tratti si rassomigliano tutti e solo il visino più interessante emerge. Vuoti di contenuti, ma per cui puoi monetizzare su challenge senza senso e significato, o solo recuperando i momenti più fondamentali di una vacanza, che non ha più nulla di interessante se non il motivo della fotografia di un’ala del Boeing 737 al tramonto.

 

 

Filtri, di questo si parlava. Della difficoltà che provava la letteratura nel raccontare i cambiamenti, finché non si è persa questa necessità ed è bastato uno schermo, se è da lì che i più giovani debuttano. Quelli della musica, che ancora non comprende dove stiano i guadagni e le perdite di questa sua nuova modalità di creazione e scouting, se tutti davvero possono fare la hit dell’estate. E l’arte, quella vera, che crea cultura e non intrattenimento, come qualcuno vuole farci credere dalla sua cameretta, si è ammutolita, anche lei. Il cambio di struttura si lega saldamente ai suoi componenti, e respinge quelli che si sono trovati a essere da parte, per questioni in cui l’età della ragione arriva a cavallo fra i cambiamenti e non può sentirsi rappresentata né da uno né dell’altro linguaggio. Campo di tensione senza nessuna scarica, finché non si lascia scomparire, diventando un’ombra che è impossibile da riconoscere. Se una decina di anni fa ci avessero detto che sarebbe stata la nostra quotidianità il nuovo mondo avremmo riso, nascondendo i brividi perché quello che tenevamo per noi non ci sembrava potesse davvero interessare a qualcuno, e finivamo a crearci nuove situazioni, a colorarle se non altro, di aspetti che non ci appartenevano. Ma poi le telecamere sono arrivate anche lì, proprio dove nessun altro aveva voluto spingersi. Sono nati i frames di SnapChat, le stories di Instagram e i v-log su YouTube, mentre finivamo in un’epoca di conflitto, tutto il resto in risposta si chiudeva, giocando a chi avrebbe potuto fare i numeri. Una democrazia, anche quella, di views e followers, in cui la discriminazione permane, e così i motivi di odio e di amore, le chiese e le denunce. Ma l’apparato ha fame e ha voluto farsi fuori anche il mondo fuori.

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Alcuni anni fa desideravo acquistare il terzo capitolo di Grand Theft Auto. Non ricordo come ne fossi venuto a conoscenza, so solo che quando lo trovai in extra sconto a 9.99 nel reparto tecnologia dell’Ipercoop avevo mentito a mia madre, sacrificando altre abitudini, purché potessi avere anche a mesi distanza il gioco più importante della mia vita. Girava male sul pc di casa, e la qualità delle immagini era così bassa da trasformarla in una nuova versione di PacMan. Era un mondo chiuso, non c’era ancora il multiplayer, ed era un tempo che si inseriva nella giornata. Oggi vedo tanti, anche di una certa età, giocare ripresi da una telecamera puntata, e visto che non ho più interesse nel gaming ma possiedo ancora gli occhi sognanti del bambino che vorrebbe avere le ultime uscite, ho preso l’abitudine a guardarli. Capisco l’influenza che hanno sui più giovani, e l’opportunità per non sentirsi in colpa di scroccare all’amico ricco quel gioco che non ti puoi permettere, anche se rimani sul divano a guardarlo divertirsi. La situazione è la stessa, i sensi di colpa no. Ed è naturale che si aprano milioni di account sulla piattaforma per emularli, fino a considerarli riferenti culturali, perché ci provano davvero, con l’aria da fratelli maggiori a dare consigli extra-videogame, finché almeno non arrivano le prime critiche, da quando le skills a COD hanno superato quelle dei FRK. E così col loro mondo parallelo. Non ricordo perfettamente il momento in cui ho scoperto la dimensione femminile di questo giocare, in cui le ragazzine condividono la propria giornata o i momenti speciali, in cui raccontano i tatuaggi o si scervellano per dare qualche parole profonda ai minuti di girato in cui ci sono soprattutto immagini e sorrisi. Ho ancora in mente i rischiosi e precoci tentativi di comprendere la loro psiche mentre cercavo il diario segreto di mia sorella o di quelle degli altri, quando rischiavamo sempre di venire scoperti e non capivamo a cosa servissero tutti quei cuori e i poster appesi alle pareti. L’evoluzione del quotidiano come forma di rapporto col mondo, sia tramite il compulsive-posting della propria vita privata sui social e le proprie cerchie, sia a quello di maggior respiro che fomenta la nascita di nuove web-star, è facilmente assimilabile a quello che ha significato per ogni adolscente nato sul finire degli anni ’80 l’arrivo di internet e del porno gratuito. Ma forse si trattava solo di una nostra questione, e non c’entra che i nati nel 2000 ora abbiano i nostri sedici anni di allora, il mondo è loro, e anche loro avranno le loro leggende personali, con o senza YouTube.

Non bisogna per forza mostrarlo, e anche se suona male è proprio così. Perché le debolezze rimangono dall’altra parte dello schermo. Il problema è proprio questo. Se è rimasto tutto lì, sulla superficie, ed esce solo quello, saremo sempre perdenti, e anche quelli dopo di noi, via via in un labirinto senza uscita. Ed è sufficiente leggere tutte le uscite, o guardarsi un paio di video, per capirlo. È un complesso alla J. Bieber, e a tutti gli altri scoppiati come lui, che sono solo una versione meno rock di Macaulay Culkin. Finisce sempre così, dissanguati fino all’osso, finché non ci si rende conto che sono fondamentalmente delle persone. Anche tutti quei libri, dai titoli accattivanti come Succede, Il mio libro sbagliato, Le #piccolecose che amo e così via, finiranno nello stesso dimenticatoio, ma la formazione interiore dei suoi lettori no e nemmeno la loro fame intellettuale, perché è tutto qui quello che ci rimane. Allora i dolori si faranno più forti finché non scopriremo che oltre lo specchio non c’è mai nulla di più interessante di quello che si vede. Se ci scavi lo capisci, che fa più male. E tutto questo dolore non ci sarà utile, se non sappiamo come coprire gli altri, perché nemmeno noi abbiamo capito da che parte stare. Se certe cose esistono forse, è anche per colpa nostra.

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