Non sparate (troppo) su Volo – Come sopravvivere a snobismo & letteratura di consumo

(sopra: Shakespeare and Company, source: Wikipedia)

Quando ho accennato a mia madre del proposito di scrivere un articolo sul fatto che la gente prende in giro Fabio Volo, la sua replica è stata: “Perché? C’è gente che prende in giro Fabio Volo?”. Mia madre ha cinquantadue anni, ha completato i suoi studi in un istituto professionale quando ne aveva diciassette e oggi sul suo comodino ci sono Un diamante da Tiffany di Karen Swan e La ragazza con l’orecchino di perla di Tracy Chevalier. Non l’ho mai sentita criticare apertamente un prodotto culturale. Tutto sommato non trascorre una brutta vita.

Quello che state per leggere non è un articolo di letteratura in senso stretto, né tanto meno in difesa della produzione di Volo. In primo luogo perché anche io condivido l’opinione di tanti per la quale la letteratura dello speaker di Radio Deejay valga poco o niente, e secondariamente perché – premessa necessaria – il Volo di quest’articolo non è che un prestanome per tutti i produttori di para-cultura con cui siamo chiamati a misurarci oggi: da Federico Moccia ai Vanzina, fino a Ligabue. Ogni volta che nella lettura incontrerete il nome di Volo, potrete sostituirlo con quello dei fratelli Vanzina o Ligabue, e così il termine “letteratura” con “cinema” o “musica” e il risultato sarà indifferente. Questo articolo non parla poi tanto di cultura popolare, quanto di una tendenza culturale: mi riferisco all’atteggiamento diffuso di ribadire – molto più del necessario – lo scarso valore letterario delle opere di Volo. So di non fare qualunquismo: lo stupore di mia madre in apertura si spiega soltanto perché non usa il computer. Quasi mai. Ma fatevi un giro sui social network: “Fabio Volo sei un cane”, “Unisciti al gruppo aperto Grazie per le banalità, Fabio Volo”, “#bellammerdailtuoromanzonuovofabio” e così via. Non c’era neppure bisogno di scriverlo; visto che questo articolo sarà pubblicato su Internet, chiunque lo legga saprà già quello a cui mi sto riferendo. Ovviamente qui non siamo in Corea del Nord, nonostante l’incredibile taglio hipster di Kim Jong Un; qui – grazie al cielo – si può esprimere tutto il dissenso che si vuole: se qualcosa vi fa schifo, uscite per strada e gridatelo. O ancora meglio, non uscite e spaccate di stati saccenti le altrui bacheche di Facebook. Io personalmente non vedo l’ora di leggere un altro post che si conclude con la dimostrazione del fatto che un certo scribacchino è un cane. Veramente illuminante.

Il punto è che non condivido quando la critica negativa è figlia di uno stereotipo culturale sbagliato. Per chi non se ne fosse reso conto, Fabio Volo è un autore di consumo: è celebre, sa mettere discretamente una parola dietro l’altra e quando si alza alla mattina sa che  il suo mestiere è vendere libri, non vincere il premio Pulitzer. E sapete che vi dico? Ci riesce anche piuttosto bene. Quando però qualcuno avanza una critica generica a Volo, lo fa sempre in un’ottica strettamente letteraria, come se i suoi prodotti fossero i diretti quanto indegni discendenti di Kafka e Faulkner solo perché si ritrovano a condividere lo stesso scaffale in libreria. Ma non è così: chi si lagna del fatto che duecento anni fa si pubblicava Hugo ed oggi si pubblica Volo, probabilmente dovrebbe lasciar perder con Hugo, sempre che lo abbia mai approcciato. Quello che sta compiendo è un grosso errore di prospettiva storica. Non perdetevi in inutilissime deprecationes temporis (che significa un po’ “rompere la minchia agli altri lamentandosi del fatto che viviamo in un’epoca di merda”): la cultura popolare è sempre esistita, ed ha sempre convissuto con l’altra, la sorella maggiore, quella che molti e per tanto tempo hanno definito “cultura alta”. Usando questa espressione non vorrei sollevare un vespaio terminologico: la distinzione tra cultura bassa e cultura alta così come viene presentata in questo articoletto è puramente di comodo; il confine tra le due, estremamente labile se mai sia effettivamente esistito, è stato tracciato nel corso degli ultimi tre secoli in parte per questioni di ricezione (chi legge cosa) e in parte per snobismo accademico. Niente di più.

Tuttavia, sussiste il fatto che per millenni anche chi non aveva accesso alle forme di cultura più codificata, chi non poteva o non voleva essere definito un “intellettuale” ha avuto la possibilità di realizzare prodotti che hanno contribuito a definire chi siamo, dai poemi orali dell’anno mille fino al vaudeville di un paio di secoli fa, per arrivare agli autori della letteratura di consumo – o paraletteratura – dei giorni nostri, da Clive Cussler a Volo, appunto.

Quella che – per evitare una questione di non poco conto – abbiamo definito semplicisticamente “letteratura alta” non ha mai avuto una ricezione ampia: non fatevi ingannare dalle edizioni economiche Mondadori di Voltaire o Manzoni; all’epoca in cui questi uomini scrivevano, soltanto una ridicola percentuale della popolazione – in tutti e due i casi non superiore al 5% – era in grado di leggere e scrivere correttamente, figuriamoci poi avere gli strumenti per comprendere appieno il Traité sur la tolérance o Il conte di Carmagonola: nessuno di loro ha mai venduto come Volo, così come i “sold out” di Wagner non sono neppure paragonabili a quelli dei Metallica. Quello che viene prodotto per un pubblico vasto, e senza richiedere una grande preparazione alle spalle, non può e non deve essere giudicato con gli stessi termini di paragone che si utilizzerebbero per un’opera che viene realizzata per una cerchia ristretta di utenti, a cui si richiede necessariamente un ampio spettro di letture o ascolti pregressi per comprendere appieno quello di cui si sta parlando. In altre parole, non esiste una ragione valida per criticare lo scarso valore intellettuale di una certa produzione, indignandosi del posto che questa avrebbe sottratto ad una certa altra cultura “alta”, quando la cultura popolare ha sempre costituito una filiera indipendente, seppure variamente intrecciata nel corso della storia, alla cultura consumata nei cenacoli, nelle corti, nelle accademie. Non sapere riconoscere e distinguere le tradizioni porta a peccare di intellettualismo sterile, ignorante e manierato: lo snobismo di chi, per qualche lettura di estratti da antologia sui banchi del liceo, ha imparato per automatismo che Flaubert è bene e che Moccia è male.

Se per molti secoli non è stato impossibile discernere tra ciò che appartiene ad una filiera e cosa no, cambiamenti progressivi e graduali hanno fatto sì che la situazione odierna si riveli molto più complessa. La crescita esponenziale del tasso di alfabetizzazione ha giocato un ruolo fondamentale nella diffusione scritta della cultura popolare, rendendo una certa letteratura un prodotto di consumo fruibile, accessibile a tutti, come sfondando le fortificazioni di un Parnasso che, per la gioia di tanti accademici, era stato fino ad allora ben recintato. Per osservare il tutto in un’ottica ancora più ampia, possiamo dire che quella che una volta era cultura popolare è diventata ora cultura di massa, dove più lettori non significa necessariamente più lettori di qualità. Ed ecco che il puro intrattenimento in forma romanzesca diventa un business di cui Volo non è altro che l’ultimo esponente, ma che comprende altri autori a cui – per nostalgia vintage  o per pura miopia storica – si guarda con molta più condiscendenza: si pensi a Salgari, e o Jules Verne o a Dumas, che si serviva di uno o più ghost writers che lo aiutassero nel suo lavoro proprio come Tom Clancy. Da che parte sta la buona letteratura? Non possiamo saperlo con sicurezza. Da centocinquant’anni a questa parte, è diventato molto più difficoltoso stabilire cosa è buono e cosa no senza rivolgersi a paradigmi tanto rassicuranti quanto impolverati (vedi Libertà di Franzen e chi lo incensava perché nuovo Tolstoj del realismo americano) proprio perché quello che era ritenuto parte del canone si è ritrovato improvvisamente a convivere con quello che non lo era, ed in un secondo momento quello che faceva parte del canone si è ritrovato a vivere dentro quello che non lo era e viceversa, in una commistione di canonico e non canonico all’interno delle stesse singole opere. Il risultato è che i meccanismi economici di una cultura popolare diventata buisiness vengono applicati anche a quella che con tutte le sue forze cerca di rimanere letteratura con la L maiuscola. Un mercato sempre più vasto fa sì che ogni mese il pubblico sia sommerso di nuove uscite, di casi letterari il cui unico scopo è spesso quello di garantire la sopravvivenza economica di tante case editrici, oggi non così scontata. Le oscillazioni del mercato stabiliscono cosa si può ristampare e cosa no. Le esportazioni di traduzioni di autori di consumo tarpano le ali a tanti autori di paesi emergenti che non attendono altro che entrare in contatto con i nostri mercati. Finisco quasi col capire chi si indigna percependo Volo come erede infelice di una tradizione che in una certa ottica canonica non lo meriterebbe. Il crollo di tutti i paradigmi fa sì che siamo noi lettori, in prima istanza, a doverci accollare ogni responsabilità. Dopo esserci sbarazzati di chi per centinaia di anni ci imponeva cosa leggere e cosa non leggere (Dovstoevskij si, Lautréamont no), siamo noi per primi a dover stabilire – sempre con cognizione di causa, senza mai lasciarci condurre da facili stereotipi culturali – chi merita di essere letto e chi no, ripiegando probabilmente, viste le scelte pilotate del mercato della carta stampata, anche e soprattutto alla risorsa di Internet, dove la pubblicazione è libera e gratuita tanto quanto la fruizione, dove le ottiche di mercato non valgono più nulla di fronte all’apprezzamento del pubblico.

Se però la lettura su carta richiede tanta attenzione, almeno il doppio ne richiede quella su Internet, dove non a caso chiunque può pubblicare, senza nessun minimo filtro autoriale che garantisca una qualche attendibilità a quello che si sta leggendo, e lo dico con un sorriso, senza rimpiangere i gesuiti che frustigavano chi leggeva romanzi proibiti qualche secolo fa. Questo per dire che se prima c’era bisogno di un pubblico attento, ora questo é più vero che mai: in un mondo (culturale) in cui la condivisione e l’apprezzamento del pubblico sono tutto, è responsabilità dei ricettori essere pronti ad accogliere preparati i nuovi prodotti artistici di questo millennio, dove per preparazione si intende conoscenza di chi ha fatto tradizione e di chi la stessa tradizione ha provato a distruggerla, di chi ne é stato protagonista e di chi ha vissuto ai margini … Un sogno che pecca forse di platonismo, che richiede tanto tempo dedicato ad una lettura responsabile ma che sembra al tempo stesso anche l’unica soluzione plausibile.

Tutto questo per ricordare solo che, se il Volo che va in stampa è uno, probabilmente in rete ci attendono migliaia di suoi gemelli separati alla nascita.

La differenza la farà la qualità della vostra lettura.

 

 

 

 

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